RIDEFINIRE

TERZO ARTICOLO SUL SERBATOIO DI ARTENA. QUESTA VOLTA LA VISIONE E’ DELL’ARCHITETTO BARBARA FONTECCHIA, NOSTRA COLLABORATRICE

La Torre va inserita in una risistemazione della Città che deve essere un obiettivo comune a tutti

Ma qual è la pietra che sostiene il ponte?” chiede Kublai Kan.
Il ponte non è sostenuto da questa o da quella pietra – risponde Marco – ma dalla linea dell’arco che esse formano“.
Kublai Kan rimane silenzioso, riflettendo. Poi soggiunge: “Perchè mi parli delle pietre? E’ solo dell’arco che mi importa
Polo risponde: “senza pietre non c’è arco“.
Ogni città è contenuta in due tipi di memoria: una individuale, l’altra collettiva, e queste insieme tracciano una geografia di infiniti ricordi, immagini, momenti, desideri, sensazioni che caratterizzano l’appartenenza ai luoghi. Penso che, nel caso della vicenda della Torre piezometrica di Artena, sia invece subentrato un discorso identitario differente che ha piuttosto a che fare con l’appropriazione dei luoghi. In molti si sono espressi ed esposti in merito alla vicenda già affrontata in passato. Quando nelle scorse settimane l’assessore ai lavori pubblici ha ribadito l’intenzione di demolizione il dibattito si è riacceso più forte che mai. La Torre è palesemente uno di quegli elementi della città che ha prodotto maggior corrispondenza con gli artenesi. Torre ed acqua non sono due elementi qualsiasi bensì due tra i simboli più forti capaci di caratterizzare gli assetti architettonici ed urbani di una città. Dalle torri di San Gimignano si gode un affaccio sulla cisterna che governa la piazza e che le regala il nome. A Barcellona Jean Nouvel ha riproposto (e realizzato), per la locale società dell’acqua, un edificio in cui la suggestione del geyser si materializza in una torre dai vetri cristallini. Fulcro di un intervento riqualificativo ben più ampio, la Torre Agbar si è inserita nello skyline della città connotandone l’immagine al pari della Sagrada Familia di Gaudì. Lungi da tutto ciò. La nostra torre dell’acqua è qualcosa di ben diverso. Ha una forma essenziale ed il suo intonaco è quasi del tutto scomparso. Essa appare con la sua anima nuda e, priva di pudore, rivela a tutti, i suoi rossi mattoni ed il suo tufo ambrato. Così sfacciata sta al centro di tutto. Forse è per questo che in alcuni suscita fastidio, in altri un riferimento identitario, in altri ancora genera sogni fluttuanti tra l’utopico ed il fantastico. Nessuna questione inerente la città, da che ricordi o mi sia stato riferito, ha prodotto un così gran numero di opinioni. Né l’abbandono di Piana della Civita condito dagli ultimi atti vandalici. Né la mancata ultimazione del palazzetto dello sport. Né gli stupri inferti sul territorio a suon di abusivismo, superfetazioni e pianificazione scevra dei servizi. Si disserta intorno la Torre come Italo Calvino fa parlare Marco Polo ne Le città Invisibili. L’unica sostanziale differenza sta nella considerazione d’insieme che muove il dialogo con il Kan e che nella discussione di casa nostra è assente. Proprio come l’insieme di pietre che costituiscono un arco ed insieme diventano “ponte”, cioè possibilità di attraversamento, ci si dovrebbe rivolgere a questo manufatto come un’architettura che può/o non può dire la sua in una orchestrazione urbana più intonata di quella attuale. La convenzione Europea del Pesaggio sancita e firmata a Firenze nel 2000, indica come non sia un singolo elemento a determinarne il valore di un paesaggio, quanto tutto il territorio che ne fa parte, riferendosi agli spazi naturali, rurali, urbani e peri-urbani anche di natura antropica. La convenzione afferma poi che, il perseguimento dell’obiettivo (dare o mantenere valore) deve muovere attraverso la salvaguardia, la gestione e la pianificazione, ritrasferendo di diritto la scena, non al singolo elemento che pur contribuisce alla città, ma all’insieme. Un’operazione tale può essere intrapresa solo attraverso un pensiero trasversale che, cambiando il paradigma che ci ha condotti a vivere in una città frantumata ed inorganica, contempli anche le componenti organizzative e sociali.
Non esiste una regola assoluta che possa indicare cosa sia giusto e cosa sia sbagliato. Deve esistere invece un metodo che, aprendosi nel confronto e nel dibattito, iniziando dalla sala consiliare (luogo costituzionalmente deputato all’individuazione degli indirizzi) e proseguendo nell’operatività della giunta (senza incorrere né proclami né in smentite), possa coinvolgere sia i tecnici deputati allo studio e alla consapevole trasformazione della città, sia artisti visionari capaci dei colpi di genio, valu-tando fino in fondo i diversi scenari. Obiettivo comune a tutti deve essere ridefinire la città come segno di un linguaggio elegante e compiuto.