CECITÀ DI JOSÉ SARAMAGO

Non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo, Ciechi che, pur vedendo, non vedono

In queste settimane di pandemia diversi lettori (come me) si sono rifugiati in questo testo per capire qualcosa in più di quello che stava succedendo: una peste che ha reso evidenti le necessità primarie di ciascuno di noi, ha messo drammaticamente in scena il rapporto difficile tra cittadini e Stato, la sospensione delle libertà, anche il modo di ricostruire, una volta usciti dalla pandemia, un futuro diverso all’insegna della sostenibilità.
Il romanzo racconta di una malattia improvvisa e totalizzante che coglie ad un tratto un uomo, il primo cieco, e inizia a diffondersi inarrestabile, senza che si possano trovare cause e spiegazioni, e si chiude con la fine spontanea, a sua volta inspiegabile, dell’epidemia. La cecità del libro di Saramago rappresenta inevitabilmente la chiusura dei nostri occhi verso quelle problematiche umane, sociali e ambientali che non sono più procrastinabili. Ci attendono dei cambiamenti di vita radicali, delle sfide davanti alle quali il nostro sguardo deve essere vigile. Se c’è un monito che ci viene da questo dramma planetario è quello di dover imparare a gestire con più saggezza le risorse umane e dare una maggiore attenzione all’ambiente, perché la mancanza di riflessione verso questi gravi problemi produce esiti nefasti per l’umanità. La grande letteratura è di supporto e getta luce sulle problematiche contemporanee.
In una città che non viene mai nominata, un automobilista fermo ad un semaforo si accorge di essere diventato improvvisamente cieco, ma anziché vedere nero, vede un bianco lattiginoso; torna a casa con l’aiuto di un altro uomo che si rivelerà essere un ladro: c’è un primo indizio delle conseguenze della cecità, cioè chi non è cieco se ne approfitta, lo aiuta ma poi gli ruba la macchina. Il primo cieco insieme alla moglie si rivolge ad un medico che lo visita e si rende conto che questa cecità è inspiegabile, salvo che anche il medico diventa cieco e poi tutti i suoi pazienti. È un’epidemia, i primi contagiati (c’è subito il tema del confronto tra i cittadini e le istituzioni) vengono confinati, da parte delle autorità che sono spaventatissime, in un unico spazio, un manicomio. Qui ci sarà un’attività di repressione da parte delle istituzioni, i ciechi si ritroveranno menomati e vessati perché, come accade in tutte le epidemie, l’istinto più bestiale che viene fuori in tutto il romanzo, fa sì che chi è malato sia visto come colpevole e anche come possibile untore. Non solo, i ciechi iniziano a prevaricarsi gli uni con gli altri, ci sono i ciechi malvagi che razionano il cibo e ricattano i ciechi buoni, anche se in letteratura buoni e cattivi in assoluto non esistono. Fino a quando non accadrà che questi ciechi escono dal manicomio, perché anche i soldati che dovevano controllarli sono diventati ciechi, tutti sono ciechi e il mondo è andato a rotoli. Cumuli d’immondizia dappertutto, supermercati devastati, abitazioni saccheggiate, una città in rovina. Solo una persona non è diventata cieca, la moglie del medico: non viene mai detto perché, ma è interessante che sia una donna. Uno dei temi di C. è che il passo tra la civiltà e la barbarie è brevissimo e l’istinto di prevaricazione che riteniamo estirpato dalle nostre società torna in maniera virulenta: quello che viene fuori dopo l’epidemia non è la solidarietà ma la bestialità. Il fatto che la civiltà sia soltanto un sottilissimo strato di ghiaccio che si può rompere sotto i nostri piedi alla minima turbolenza è un tema prettamente novecentesco, secolo in cui la storia non viene più vista come un continuo progresso dell’essere umano, ma ci sono continui crolli e precipizi verso l’abisso. Cos’è dunque questa cecità? Un’allegoria di una malattia dell’anima. I nostri riferimenti saldi, quello che rende bella e desiderabile la vita, soprattutto nelle democrazie più avanzate e anche la ragione che ne fa meta dell’immigrazione di milioni di persone ogni anno, non è scontato, non è sempre lì a nostra disposizione, può entrare in crisi; l’intero sistema che abbiamo sempre considerato inevitabile e come una conquista definitiva, definitivo non lo è affatto, con delle conseguenze molto pesanti non solo a livello sociale e politico ma anche psicologico. Cecità è una parabola: cosa vuole insegnarci? Che l’epidemia è un avvertimento.
Proviamo a fare anche un’analisi filologica: Saramago usa uno stile che si potrebbe definire a perdifiato, che è una categoria che si usa negli elenchi. Se si chiede ad un lettore qualunque di avere a che fare con C., sarà colpito da due cose: una, la bellezza del romanzo, capirà perché Saramago è diventato un premio Nobel; l’altra, è uno specchio di pagina stancantissimo, perché non usa mai spazi bianchi, non usa mai a capo, anzi, fa una cosa ancora più azzardata nel corpo della pagina, usa la punteggiatura in maniera sperimentale, senza virgolette, non distingue il corso della narrazione dai dialoghi diretti. Per chi legge è un’esperienza straniante, non troviamo mai i due punti e le virgolette, che anche visivamente ci danno l’impressione di prendere fiato. In C. questo diventa un sinolo in senso aristotelico, cioè un’unità di forma e sostanza, perché quel senso di stanchezza che prova il lettore è direttamente proporzionale al senso di stanchezza che avanza all’interno del romanzo, il senso di deterioramento dell’esperienza che noi viviamo man mano che procediamo insieme ai ciechi: l’acqua che manca, il cibo che va a male, l’umanità che si svuota, le città che diventano invivibili; il procedere a tentoni dei ciechi è quello del lettore, che ogni volta che c’è un dialogo deve riorientarsi all’interno della pagina. Per dare il senso dell’annichilimento dell’individuo, i personaggi non hanno nomi ma ruoli, caratteristiche: il ragazzino strabico, la ragazza con gli occhiali scuri; etichette, rappresentazioni cui è sottratta la possibilità di diventare personaggi; annichilimento che l’autore raggiunge togliendo quegli elementi a cui i lettori sono abituati. Verso la fine del romanzo, tutti i grandi temi della letteratura universale si trovano condensati in pochissime pagine e se ne fa quasi sempre mentore la moglie del medico: c’è il topos del sogno, del tribunale (Kafka), della resurrezione, della fine del mondo, della cecità volontaria (Edipo), e della sepoltura. Ad un certo punto i ciechi decideranno di seppellire una donna, sarà un’impresa faticosissima ma lo faranno e questo è un topos fondamentale: è la sepoltura che Antigone deve a suo fratello Polinice o quella che Priamo chiede per il cadavere di Ettore; è il momento in cui l’umanità si ritrova e si ricongiunge, nel poter seppellire i morti, per ristabilire un ordine tra i vivi e i morti. Ed infine il topos del giardino, che sembra quello de La bella addormentata nel bosco: i ciechi escono dal lockdown, sono vivi e intorno la natura è cresciuta rigogliosa, come se fossero passati cento anni e tutto è diventato un inestricabile giardino. Bisogna rimboccarsi le maniche e andare a tagliare le spine.