MIGRA, MERAVIGLIOSA, LA MUSICA

La musica che portano le migliaia di persone che attraversano il mare, è compagna di viaggio, parte imprescindibile della loro identità e un collegamento con casa.

La musica è naturalezza e riesce a farsi accogliere all’estero con una semplicità disarmante che testimonia quanto sia radicata nella comunicativa di ogni essere umano.

La musica insegna ad accogliere a prescindere dal genere, dalla lingua e dallo stile, perché riconosce ciò che le è simile a un livello più empatico, platonico. Ci dimostra che, oltre le differenze e proprio per quelle, la ricchezza della nostra identità viene dall’Altro.

La prima volta che entrai in un CAS (Centro di Accoglienza Speciale, ci andavo per insegnare la lingua italiana ai migranti) rimasi colpita dai volumi alti.
Tuonava la voce del Direttore, che cercava di presentarmi a una ventina di uomini di nazionalità diverse, seduti in circolo su sedie troppo basse per le loro gambe lunghe. Chiacchieravano forte, sovrapponendosi in lingue dai suoni gravi.
Quando si accorsero della mia presenza, si zittirono e mi rivolsero i sorrisi più smaglianti di cui un essere umano sia capace.
In silenzio, era rimasta soltanto musica sul fondo.
Mi accorsi allora che non solo i ragazzi tentavano di prevalere con la voce gli uni sugli altri per affermare le proprie parole, ma provavano a sovrastare canzoni che uscivano dagli altoparlanti dei loro cellulari. Ognuno il proprio. Ognuno la sua canzone.
Io non distinguevo un brano dall’altro, perché tutti suonavano contemporaneamente. Non capivo neanche se i miei futuri studenti ascoltassero davvero.
Per quei ragazzi, la musica era stata non soltanto una compagna di viaggio, l’unica che avessero potuto portare con sé – molti di loro sono arrivati a bordo di gommoni partiti dalla costa libica, senza nient’altro che loro stessi e un cellulare: si viaggia leggeri, se qualcuno muore a bordo si butta in mare – ma era diventata una parte imprescindibile della loro identità, oltre che un collegamento con casa.
Così, insieme ai loro occhi, alle cicatrici procurate nei campi di lavoro in Libia, dove esautoravano il debito contratto per il viaggio verso la speranza di una vita a cui tutti abbiamo diritto, ai loro nomi, ai credo, al livello di istruzione, alle gioie e ai dolori, migra meravigliosa la Musica.
La musica insegna ad accogliere a prescindere dal genere, dalla lingua e dallo stile, perché riconosce ciò che le è simile a un livello più empatico, platonico. Ci dimostra che, oltre le differenze e proprio per quelle, la ricchezza della nostra identità viene dall’Altro.
Grazie ai ragazzi indiani ho imparato a riconoscere un sitar dal surbahar e ho scoperto che oltre a Ravi Shankar c’è la chitarra di Brij Bushan Kabra. Poi ho approfondito la musica berbera, di cui conoscevo troppo poco: i Tinariwen, Bombino e Amadou&Mariam non bastano a rappresentare un genere che abbraccia tutto il Nord Africa per arrivare in Mali. Non sapevo di Les voix de Bamako, un festival che promuove la cultura e la musica africana soprattutto al femminile. Ho ascoltato il reggae di Majek Fashek, perfino l’opera nigeriana e il compositore classico Fela Sowande, che piaceva tanto a Boubackar: lo calmava di notte quando aveva gli incubi.
La musica ci dice che non bisogna mai fermarsi e mai fermare, ché il movimento genera incontro, e solo se ci troviamo realizziamo la possibilità di costituire la narrazione di un’umanità migliore – come i capolavori nati dalle mescolanze: penso al jazz-funk di The Heliocentric di Orlando Julius; a Goran Bregovic, emigrato dal suo paese per riscoprirne la cultura, e dopo un approccio al rock occidentale e alle chitarre elettriche, ci emoziona con i tamburelli di Kalashnjikov e i violini della sua terra; penso a George Harrison, amante del sitar e allievo di Shankar, che influenza il mood sonoro di Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band; Bonobo, inglese, che nella musica elettronica mescola downtempo e tribalismo; James Senese, Almamegretta, il trip-hop dei Massive Attack. Esiste l’Istituto Italiano di Cumbia.
Anche la trap è salpata dagli USA. È diventata un genere di tendenza in Italia, veicolo d’espressione di molti ragazzi provenienti da condizioni sociali difficili. Alcuni stranieri di seconda generazione, nuovi cittadini del nostro paese, hanno dato voce alla propria identità. Ghali, di origini marocchine, ha cantato l’integrazione nell’autotune e prova a combattere l’ignoranza e abbattere vuoti slogan politici di chi non ama gli esseri umani, puntando sulle giovani generazioni.
È a loro che dico: ascoltate la musica, siate i nuovi migliori esseri umani.