TRA LEGGENDA E REALTA’. ARTENA VISTA DAGLI OCCHI DI “NOI” FORESTIERI

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La Città è uno scrigno di tesori chiuso da un lucchetto arrugginito. Bella, carica di promesse, ma poco fruibile. Non bastano le suggestioni di una fama oscura, i fantasmi degli antichi briganti da cercare in fondo a un vicolo o in cima a una scalinata

“Quindi hai proprio deciso? Vai ad abitare nel Paese dei Briganti?”.
Così mi disse, non ricordo esattamente chi, quando annunciai a parenti e amici di aver trovato ad Artena la villetta con terreno che cercavo da tanto tempo.
Scoprii così che molte persone del mio ambiente familiare e lavorativo conoscevano quella cittadina per una certa fama sinistra legata al suo passato, di brigantaggio e di delinquenza, che più di cento anni fa le aveva meritato il soprannome con cui era ancora conosciuta, e per alcuni rinomati ristoranti in cui i miei amici e colleghi romani venivano a mangiare la domenica durante la classica “gita fuori porta”. E invece io, che in giro per borghi storici andavo spesso, prima di leggere quell’annuncio immobiliare sul mitico giornale “Porta Portese”, ad Artena non ero mai stata. Ne avevo solo sentito parlare, due o tre anni prima, quando un quotidiano nazionale aveva riportato in cronaca un agghiacciante episodio occorso proprio in quella cittadina: nella piazza principale del centro storico qualcuno aveva fatto trovare il cadavere di un cane maremmano crocifisso a due assi di legno. Un avvertimento di morte, pare, espresso nel linguaggio in codice dei pastori. Io e i miei colleghi, nel nostro ufficio all’EUR, leggendo quell’articolo eravamo rimasti scioccati. Forse avremmo trovato un fatto simile meno sconcertante, se fosse accaduto nel cuore profondo della Barbagia, ma in un borgo storico a soli 40 km dalla capitale? Che razza di posto era mai quello, ci chiedemmo, e che gente ci viveva? Ero proprio sicura di volerci andare ad abitare? Appena la vidi per la prima volta, arroccata su quella parete di roccia, le case addossate le une alle altre e quella chiesa solitaria in cima, me ne innamorai.
Visitandola, mi piacque subito moltissimo quel centro storico a sé stante, separato dalla parte moderna, in cui né auto né palazzi nuovi venivano a spezzare l’impressione di fare un tuffo all’indietro nel tempo che si prova camminando per i vicoli.
Mi piacque il panorama superbo sulla valle che si gode dal punto più alto, il fresco creato dal manto di boschi di castagno alle sue spalle. Mi piacque la quiete, il silenzio, la sensazione di una vita che intuivo snodarsi a un ritmo più lento, meno frenetico, più umano di quello di città. Mi sembrò un’oasi di pace a pochi chilometri dalla grande città.
Avevo trovato il mio luogo, dopo tanto cercare, e decisi di adottare quel borgo affascinante e di farmi adottare da esso. Sono passati ormai circa trent’anni, ma io continuo a guardare Artena con gli occhi di un forestiero. Un forestiero assetato di bellezza, un turista appassionato che cerca sempre nuovi spunti per soddisfare la propria curiosità, e che quando visita un luogo ha bisogno di nutrire l’anima tanto quanto il corpo.
La vedo come è, questa città: uno scrigno di tesori chiuso da un lucchetto arrugginito. Bella, carica di promesse, ma poco fruibile. Ha un’area archeologica che si sa per certo essere importante, abbandonata; ha palazzi che si intuiscono artistici e storici, non visitabili. Ha un centro storico vasto e bello come pochi altri, che potrebbe diventare un teatro a cielo aperto, o uno di quei rifugi alla moda per artisti, uno spazio espositivo o un luogo di appuntamento fisso con festival musicali, come succede a tanti altri borghi nel resto d’Italia, e che invece ancora in troppi non conoscono neppure.
Non bastano, oggigiorno, le suggestioni di una fama oscura, i fantasmi degli antichi briganti da cercare in fondo a un vicolo o in cima a una scalinata e una tradizione culinaria che ovunque in Italia non delude mai. Briganti e ristoranti? Troppo poco, per una città che merita molto di più, e che molto di più può offrire e di conseguenza guadagnare dalla propria bellezza.