“L’orribile morte di Willy, con il suo acre sapore, è ancora sulla bocca di tutti, ha generato dolore in intere Comunità. Negli anni si è fatto davvero poco, è ora di porre le basi per interventi concreti“
Dopo l’agghiacciante omicidio Morganti, avvenuto nella notte tra il 24 ed il 25 marzo 2017 sembrava che eventi del genere non potessero più accadere. Emanuele fu ucciso a forza di calci e pugni fuori da un circolo Arci, a due passi dalla piazza principale di Alatri, sotto gli occhi dei suoi amici e di molte altre persone. Il gruppo di balordi responsabili è poi andato in giudicato per omicidio preterintenzionale.
Sono passati appena tre anni e la tragedia si ripete. Non importano le dinamiche, le discussioni iniziali, i locali notturni, la movida. Non importa chi abbia iniziato a provocare, che ore fossero, chi è fuggito, chi ha chiamato i soccorsi, chi ha avuto paura, chi ha pregato e chi ha urlato. La ricostruzione dei fatti è materia dei giornalisti che con la loro cronaca potranno vendere questa storia ancora per un po’. Ed è materia, e lo sarà ancora, della magistratura che dovrà attribuire le responsabilità comminando le pene che riterrà opportune.
Dal nostro punto di vista, quello che resta è la morte di un ragazzo innocente. Willy. E l’eco della sua sofferenza nell’abbandonare questo mondo troppo stretto per il suo sorriso.
Le modalità sono circostanze accidentali che possono solo predisporre l’esplosione di un potenziale violento. La notte tra il 5 ed il 6 settembre questa mina vagante si è scagliata contro chi, probabilmente, non avrebbe mai immaginato l’esistenza di una forza così distruttrice e gratuita, ma capace di lasciare solo il dolore ed il suo acre sapore. E’ ancora nella bocca di tutti. Della famiglia, degli amici e di tutte le comunità coinvolte.
Le commemorazioni, che da subito hanno permesso di esprimere solidarietà alla famiglia e condanna nei confronti dell’atto violento che ha spento Willy, sono state anche uno strumento per riflettere. Tuttavia… non può e non deve finire qui!
La nostra società ha tre agenzie deputate all’educazione. La prima è la famiglia. La seconda è la scuola. La terza è la politica, amministrativa e governativa. Insieme, collaborando organicamente, devono impedire che possano generarsi, anche in seno alle situazioni più svantaggiate, personalità violente.
“Forse negli anni si è fatto poco”. Questo, a mio avviso è il fastidioso presupposto da cui partire per porre le basi per la realizzazione di interventi concreti. E’ giusto dissociarsi dalla violenza così come è sbagliato non cercare le criticità di un sistema fin troppo quiescente. Quando un genitore non sa spiegare l’agio di un figlio deve porsi delle domande ed intervenire. Quando la scuola registra un tasso di abbandono scolastico superiore alla media deve intraprendere un’attività di ricerca-azione per formulare prima domande e per poi fornire risposte. Quando un ragazzo proveniente da una situazione svantaggiata non esce dal suo status ma perpetra quello della sua famiglia, aggravandolo, lì la politica deve trovare la falla del sistema e deve chiedersi:”potevo fare di più? Quanto ulteriore svantaggio si è generato nella mia comunità?”
Poi c’è il ruolo dei singoli. A tal proposito rubo alcune riflessioni di Daniele Vicari, regista-scrittore e autore del libro “Emanuele nella battaglia”:
“Perché dobbiamo guardarci in faccia? Perché noi dobbiamo decidere quale società vogliamo, cosa vogliamo essere. Le povere vittime sono figli e figlie nostri, ma anche i balordi lo sono. Anzi quei balordi lo sono ancora di più delle vittime, perché a noi ci piacciono i vincenti, i bulli, gli spacconi, gli sboroni. Ci piacciono nella politica, in tv, al cinema, nel paese e nel quartiere…. noi li votiamo, li eleggiamo, li vezzeggiamo in una parola li alleviamo. Noi le vittime le evitiamo, di solito, perché i perdenti non ci piacciono. Quando le vittime finiscono in TV diciamo <>, ma dopo un po’ torniamo ad ammirare la categoria degli stronzi e lo facciamo senza remore. Quelli che alzano la voce, che alzano le mani, che fanno ciò che noi non abbiamo il coraggio di fare, quelli ci piacciono da morire! Noi dobbiamo decidere cosa essere, nessun controllo di polizia può sostituire il controllo sociale”.
Penso che non ci siano ricette. Non ci sono formulari e sono consapevole che la ristrettezza di risorse economico-finanziarie ostacoli ogni tipo d’intervento. Sono altresì convinta che dal lavoro consapevole e motivato di tutti gli attori, possano scaturire misure utili alla ricucitura di una società sbrillentata che fa fatica a deglutire il carico emotivo e rappresentativo che in pochi giorni si è generato.
Io ho bisogno di credere in un’altra società e sento la necessità di essere accompagnata nella costruzione di un’Altra Artena che già esiste ma che deve avere il coraggio di non farsi sopraffare.