IRPINIA. QUARANT’ANNI FA LA TRAGEDIA

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UN RICORDO DEL NOSTRO COLLABORATORE DI VITTORIO AIMATI CHE IN QUEI GIORNI ERA SUI LUOGHI DEL TERREMOTO

Alle 19.34 di domenica 23 novembre di quarant’anni fa, mi trovavo con i miei amici al Muro del Pianto. Era una domenica e stavamo decidendo dove passare la serata.

In un istante sentimmo un tremolio che durò circa 30 secondi. In quel momento mi accorsi che il marciapiede dove stavamo seduti si staccò di qualche centimetro dal muro di cinta della scuola elementare.

Eravamo un centinaio di ragazzi lungo quel marciapiede. Tutti ci bloccammo, ci guardammo e capimmo subito. Si era trattato di un terremoto.

Prima di quello ne avevo “sentito” un altro un anno prima, era il cosiddetto terremoto di Norcia del 19 settembre 1979. Prima di allora non conoscevo la sensazione del terremoto: è un conto che ne senti parlare e che vedi le immagini, un conto è esserci dentro.

In quella notte del 1979 non c’ero dentro, nel senso che l’epicentro era stato molto lontano, ma il boato e il sussulto li avevo sentiti, eccome.

Guardavo un “mercoledì sport”, una trasmissione di seconda serata del secondo canale della RAI, che trasmettevano ogni mercoledì. Erano le 23.30, a un certo punto la sedia cominciò a ballarmi sotto il sedere, e allo stesso tempo, un boato cupo e sinistro che sembrava essere un lamento di un gigante accompagnò per qualche secondo lo sgrullo del palazzo dove abitavo.

Quella notte la passai all’aperto, in automobile e anche alcune netti successive.

Fu violento e terribile. Per questo quando mi accorsi del terremoto del 23 novembre 1980, non ci feci tanto caso: non avevo sentito alcun lamento di gigante e il tremore della terra non fu poi così intenso. Mi sbagliavo e di grosso.

Fin dai telegiornali della sera si cominciò a capire la portata del sisma e della tragedia in atto.

Le prime immagini erano davvero devastanti. Guardavi la TV e restavi muto, senza fiato. Fui talmente colpito che ebbi subito un desiderio, quello di partecipare agli aiuti.

Lavoravo in una radio ed ero direttore di un giornale, ma avevo pur sempre 19 anni e la maturità era quella di un ragazzo che fino a poco tempo prima era bambino.

Ma andai ugualmente.

Di base arrivai a Montella, un piccolo centro Irpino, completamente accartocciato su sé stesso. Mi misi a fianco del sindaco di quella gente: era un uomo frastornato, disperato, arrabbiato. Urlava il suo dolore ma anche le sue lamentele contro i ritardi dello Stato. C’ero quando Sandro Pertini, Presidente della Repubblica, lo incontrò e lo abbracciò mentre il pianto gli rigava il volto ottuagenario.

Non ho scavato, non me lo hanno consentito, ma ho sistemato le bare, accatastandole le une alle altre in una piazza d’armi di una caserma di San Potito Ultra, una città vicina a Montella. Erano vuote, ma da lì a poche ore sarebbero servite per i quasi tremila morti.

La disperazione era palpabile. A Montella era rimasto in piedi il solo 5 per cento del Paese, i morti erano 10 fino a quel momento, ma i dispersi erano decine (poi i morti totali furono 14)

Quando qualche giorno dopo arrivai a Lioni, dove si contavano 228 morti, mi accorsi che l’inferno era anche sulla terra; ma a Sant’Angelo dei Lombardi, dove i morti erano 482, e a Teora (137 morti), non potevo credere a quello che mi si parava di fronte. Due Paesi che erano stati completamente rasi al suolo. Sulle macerie fumanti c’erano le squadre degli aiuti e della Protezione Civile che scavavano alla ricerca di qualche sopravvissuto.

Le strade non esistevano più, anche le tombe dei cimiteri erano state divelte dalla furia del sisma, lasciando le casse da morto alla luce del giorno.

Non c’era acqua, e se c’era puzzava. Non c’era luce. Non c’era telefono. Non c’era cibo, non si trovava il pane e nemmeno il latte, perché oltre agli umani erano morti anche gli animali sotto il crollo delle stalle e degli ovili. Non c’era la vita ed era assente qualsiasi voglia di ricominciare.

C’era la rassegnazione disperata di chi sa che non può farcela.

Sulle stradine che univano i centri colpiti dal sisma, si poteva transitare anche se con molta attenzione. La neve era già comparsa ampiamente e questo rendeva in paesaggio ancora più sconvolgente.

La sera dopo le sei si sentivano solamente gli ululati dei lupi, anche loro affamati, e a nessuno era consentito stare in strada a quell’ora (una sorta di coprifuoco a cui non si era ribellato alcuno).

Le scosse si ripetevano continuamente, e lo fecero per i successivi giorni. La più forte, quella del 23 novembre, fu di magnitudo 6.9 che sarebbe decimo grado della scala Mercalli, la più alta mai avuta in Italia.

Ne ho sentite centinaia di scosse, e ogni volta che ce n’era una, a Montella la gente urlava dalla paura: ma ormai era stato tutto distrutto, nulla poteva più crollare e nessuno sarebbe rimasto sotto le macerie.

A quarant’anni di distanza non potrò mai dimenticare quell’esperienza, non potrò mai dimenticare quei volti, qual sindaco tramortito e allo stesso tempo tradito, quelle casse da morto vuote, accatastate a migliaia in quella piazza d’armi.

Quello che più conservo gelosamente è il pianto delle persone, disperato ma dignitoso, e gli abbracci: i tanti che ho dato e, molti di più, quelli che ho ricevuto.

Me ne sono andato dall’Irpinia con negli occhi la paura della gente ma che allo sguardo spaurito contrapponeva una grande dignità e la rassegnazione era stata sostituita dal desiderio. E’ lì in quei giorni di tragedia italiana, la più grande della Repubblica, che ho imparato ad avere la schiena dritta, ad essere uomo e non più bambino.

Vittorio AIMATI