DA ARTENESE “A DISTANZA” IO PENSO CHE…

LUCIANO LANNA SCRIVE SU ARTENA SENTENDONE GLI ECHI ANCHE A ROMA DOVE ABITUALMENTE VIVE

Non è facile scrivere dei più recenti fatti del mio paese dalla mia distanza di artenese che da un ventennio vive a Roma. Premetto che in uno scenario da villaggio globale e di de-territorializzazione dell’esistenza forse una tale operazione non avrebbe più senso… Già nel 1973 Pier Paolo Pasolini parlava infatti di “omologazione” tra culture e identità periferiche e centrali. Due rivoluzioni, sosteneva il poeta e cineasta, quella delle infrastrutture e quella del sistema delle informazioni avevano strettamente connesso ogni periferia a qualsiasi centro, abolendo ogni distanza materiale e antropologica, “attraverso un’opera di omologazione distruttrice di ogni autenticità e concretezza”.

Eravamo nei primi anni ’70, ma Pasolini sottolineava come i giovani italiani, fossero essi borgatari o pariolini, nell’essenza e nei comportamenti quotidiani erano ormai “in tutto e per tutto identici all’enorme maggioranza dei loro coetanei. Culturalmente, psicologicamente, somaticamente – concludeva – non c’è niente che li distingua”. Due anni dopo, in polemica con Italo Calvino, Pasolini tornava alla carica e analizzando il massacro del Circeo – quando due ragazze vennero violentate, e una di loro uccisa, da tre ragazzi della Roma bene – non cedeva al conformismo interpretativo: “I poveri delle borgate romane e i poveri immigrati, cioè i giovani del popolo, possono fare e fanno effettivamente, come dicono con spaventosa chiarezza le cronache, le stesse cose che hanno fatto i giovani dei Parioli, e con lo stesso identico spirito…”.

Ecco, inviterei i lettori a estendere l’osservazione pasoliniana e – in un contesto ancora più omologato, da villaggio globale compiuto – trasferirla alle polemiche con cui sono stati letti i fatti che hanno portato alla morte del povero Willy. Fatti che vanno analizzati, a mio parere, senza nessuna specificità o causa territoriale. Sono infatti rimasto stupito e indignato da alcune paginate dei quotidiani che riesumavano la vecchia e trita storia del “paese dei briganti” o il riferimento a storie di banditi e violenti risalenti all’800. Come se esistesse una sorta di destino dei luoghi e una sorta di determinismo sociale, peraltro smentito dalla lunga, lunghissima, storia di un paese pacifico e tranquillo. Vorrei solo ricordare, per inciso, che nei tragici anni ’70, caratterizzati in tutta Italia da una violenza urbana ammantata spesso da valenze politiche, non un solo episodio violento sia stato registrato nelle cronache artenesi…

Ragion per cui, inviterei a alzare il tiro dell’analisi e non cadere, proprio noi artenesi, vittime di quelle interpretazioni. Guardando, semmai, quei tragici fatti come il sintomo di una società globale in cui – anche attraverso l’amplificazione della logica dei social e del narcisismo dell’apparire – la violenza giovanile, il bullismo, il ricorso sempre più diffuso e devastante di alcol e droghe stanno egemonizzando buona parte dell’esistenza degli adolescenti e dei giovani. Che questi siano residenti in un luogo o l’altro cambia poco la gravità di un fenomeno che va affrontato globalmente e dal centro dello spazio pubblico e sociale.

L’altro mio rilievo da artenese a distanza potrebbe essere quello sull’inchiesta giudiziaria che ha coinvolto alcuni amministratori e imprenditori locali. Ma anche in questa vicenda, vaccinato da quasi trent’anni di distorsione nel rapporto tra politica e inchieste, di facili e spesso strumentali entusiasmi palingenetici (quasi che la via giudiziaria fosse la soluzione al malfunzionamento della politica), non solo non vedo una specificità artenese ma, inviterei tutti, a restare sereni e in attesa del corso della giustizia. Troppe inchieste, nazionali e non solo, del recente passato, si sono sgonfiate con il passare del tempo e da cittadini maturi abbiamo il dovere sacrosanto del garantismo. Personalmente non ho seguito la vicenda e non conosco quanto scritto sulla stampa: tengo da anni a farlo come metodo e come stile. Io, prima di parlare di fatti che non conosco e non posso conoscere, attendo sempre l’esito dei processi giudiziari fino eventualmente all’ultimo grado di giudizio.

Da Mani Pulite in avanti ho infatti maturato l’idea che per tanti, troppi anni, l’accanimento giornalistico nel dividere l’opinione pubblica come in due tifoserie rispetto alle inchieste che riguardavano politici e amministratori abbia solo avvelenato il clima e costituito una delle cause della crisi pubblica italiana. L’obiettivo, spesso anche indipendente dal corso giudiziario delle vicende, è stato – dichiarato o meno – quello di avvelenare e condizionare i processi politici ed elettorali in corso. Per cui, anche di fronte a questa vicenda, inviterei i lettori a svelenire il clima, ad attestarsi nella più che legittima posizione della presunzione di innocenza degli indagati e, in attesa dei passaggi giudiziari, di pensare a cose più utili, come ad esempio quella di come poter contribuire – tutti noi – alla migliore tenuta pubblica, sociale e civile del nostro paese. In tutto in nome dell’etica della responsabilità personale e di quello che, nella concretezza della nostra vita quotidiana e dei nostri rapporti umani, possiamo mettere realmente in campo.

Luciano LANNA