IL PARROCO DEL CONVENTO DON FRANCO, CI RACCONTA LA SUA ESPERIENZA

Il sacerdote: “Se andando in Messico, costa del Pacifico, sono arrivato ‘fino ai confini della terra’, entrando in carcere sono arrivato agli ‘estremi confini dell’umanità dolente’.” Con poche e semplici parole il prete ha raccontato le sue esperienze più formative

In questo numero natalizio del giornale desideriamo ospitare i sacerdoti di Artena. In apertura abbiamo pubblicato l’articolo di don Antonio, parroco di Santa Croce e del Rosario. In questa intervista ci fa piacere ascoltare le parole di don Franco, parroco di Santa Maria di Gesù (il Convento)
Salve Don Franco e grazie per aver accettato la mia intervista. Anche se è da tanto che la conosciamo, non le abbiamo fatto delle domande e gliele vorremmo fare oggi. Come e quando è nata la sua vocazione?
Non lo so. Non ricordo di aver preso una decisione o fatto una scelta. All’asilo di Santa Croce le suore mi hanno insegnato a pregare e molto presto ho cominciato a pregare tutte le sere. A sette anni ho fatto la prima comunione e don Amedeo mi ha fatto fare il chierichetto. Da allora ho sempre desiderato fare questa vita, senza scossoni, quasi in automatico. La vocazione è un mistero perché è iniziativa divina”.
Come ha reagito la sua famiglia, sapendo la notizia che voleva diventare sacerdote?
La mia famiglia mi ha accompagnato in modo semplice, cioè senza interferire. Non mi hanno né incoraggiato né frenato, mi sono stati vicini in ogni tappa del mio percorso. Hanno fatto la cosa più giusta. Le persone umili sono di solito le più sagge”.
Da quanto tempo è parroco nella Parrocchia di Santa Maria di Gesù ?
“Dal 24 settembre 2017: 5 anni e tre mesi”.
Quali differenze ha trovato rispetto alla parrocchia da cui proveniva?
Non provenivo solo dall’ultima parrocchia, Santa Maria del Carmine, nella campagna di Velletri. Provenivo anche da altre parrocchie, amate e servite: SS. Nome di Maria, nella campagna di Genzano, Santiago Apostol e Nuestra Senora de Guadalupe in Messico, e Santa Croce in Artena.
Il confronto con le precedenti esperienze mi fa sentire questa parrocchia molto diversa. Le mie precedenti parrocchie erano di recente costituzione, “nuove” in tutti i sensi, senza un passato condizionante.
Santa Maria di Gesù è una parrocchia con molta tradizione, e questo ha i suoi vantaggi e anche i suoi svantaggi. Per la mia personale sensibilità mi trovavo più a mio agio dove si guardava al futuro da costruire più che al passato da conservare. Qui si parla sempre e solo del passato. Quanto è faticoso iniziare processi di cambiamento per il futuro.”

Sicuramente l’esperienza che più ti ha arricchito in vita è la missione in Messico. Come ci riassumeresti in qualche riga quegli anni?
“Sono partito perché la Chiesa chiedeva una migliore distribuzione del clero, quando in Italia eravamo ancora tanti e in molte giovani chiese scarseggiavano le forze. Sono andato a servizio della chiesa di Tijuana che mi ha affidato delle piccole comunità rurali diffuse in un ampio territorio. Ho scoperto lì il piacere di sperimentare metodi nuovi e di costruire le comunità. Non ho fatto nulla di particolare e di me non è rimasta traccia, però oggi ci sono delle comunità cristiane fiorenti. E io ne sono felice. Ho imparato tanto dalle giovani chiese che ho servito: il forte senso comunitario, non solo nell’appartenenza ma nel lavorare insieme; l’entusiasmo; la non indispensabilità del sacerdote neppure per la celebrazione del giorno del Signore o per i funerali, essendo da tutti apprezzata anche la guida di persone laiche”.
E l’esperienza del carcere invece si può definire un’esperienza continuativa di missione. In cosa consiste nello specifico?
Proprio mentre chiedevo al Vescovo di lasciarmi partire di nuovo, da Lui ho avuto la richiesta di disponibilità per il servizio in carcere. Ho obbedito e non ho rimpianti. Si, c’è continuità tra le due esperienze: se andando in Messico, costa del Pacifico, sono arrivato ‘fino ai confini della terra’, entrando in carcere sono arrivato agli ‘estremi confini dell’umanità dolente’. Da quindici anni faccio questo servizio che considero un assoluto privilegio. Sono un prete fortunato, perché faccio le cose che amo tra le persone che amo. Mi sento nel cuore della Redenzione. Il Figlio di Dio, infatti, non è venuto per i forti, i virtuosi, per i giusti, ma per coloro che avevano bisogno di essere redenti, liberati, guariti. Voi esterni avete una visione forse romantica e quasi eroica del Cappellano di carcere, come fosse un domatore nella gabbia dei leoni. In realtà il mio servizio è semplice e piacevole, tra persone che hanno mille bisogni ma anche un cuore. Aiuto i più poveri a mantenere i rapporti con le famiglie, ascolto coloro che mi chiedono colloquio, procuro ospitalità extra-muraria , risolvo problemi di trasferimento di denaro per i detenuti, ecc… soprattutto trasmetto la Grazia del Signore con la celebrazione del Sacrificio eucaristico e con la predicazione del Vangelo. Con la necessaria discrezione, in certi periodi, ospito in convento persone sottoposte a misure alternative alla carcerazione. E’ un grande aiuto spirituale per loro, ma è anche un grande aiuto alla Comunità perché queste persone ricambiano con il lavoro manuale”.

Ringrazio vivamente Don Franco per aver accettato l’intervista e auguro a lui ed a tutti un sereno e felice Natale.

Elena MELE