TRA I VICOLI DI ARTENA IMMAGINANDO VITE FUSE CON QUELLE PIETRE

Da dove iniziare, oggi, per raccontare di un Artena? Potrei dire che questo mio legame è nato grazie al lavoro di un architetto che è riuscito a regalare alla piccola città un edificio luminoso, solido e nuovo, e che io sono stato tirato dentro a questa storia per realizzare delle immagini che accompagnassero un libro.
Però ci si potrebbe chiedere: Perché chi scrive sente il bisogno di puntare l’attenzione su un “oggi”. È semplice.
Oggi i libri vengono stampati e letti sempre meno. Oggi la nostra vita è immersa in una produzione di immagini velocissime e in quantità illimitate. Siamo nell’era della fotografia digitale che non ha costo e viviamo nei social network, ed oggi ci capita raramente di stampare le nostre visioni, come invece era necessario fare per rivederle quando le fotografie si facevano in pellicola.
Rileggo ciò che ho appena scritto e mi sento come una specie di dinosauro che ha vissuto all’inizio del 900, quando si è passati dalle stampe all’albume realizzate artigianalmente alle produzioni industriali; un’epoca lontana in cui la prima Kodak prodotta industrialmente era priva di un mirino, scattava a fuoco fisso con solo un tempo di otturatore, e il cui slogan pubblicitario era: You press the botton, we do the rest! Epoca in cui l’invenzione del tram e il mito del motore segnavano un passaggio epocale, per molti vissuto come un baratro. A sentirne altri anche oggi l’apocalisse sembra alle porte ma è bene restare calmi, perché basta studiare la storia per sapere che questo non è vero; gli slogan delle macchine fotografiche di oggi sono più o meno quelli di due secoli fa, e ciò che conta è invece riuscire a trovare sempre il modo giusto per essere nel presente.

Così, da forestiero, ho cercato di individuare i momenti migliori in cui il sole illuminava direttamente la città. Ho domandato ad amici e gente che incontravo quali fossero secondo loro questi archi di tempo e così, settimana dopo settimana, sono andato sempre nelle ore della mattina, ripartendo non appena il sole calava dietro la collina in una specie di gara tra me e lui a chi andava più veloce. Impresa impossibile.
Non so se sono riuscito nel mio intento, anche perché il traguardo che volevo raggiungere si spostava ogni volta che dalla città me ne andavo col mio bottino di visioni, per poi tornarvi la volta successiva con l’idea che c’era ancora tanto da scoprire.
Ma quale è veramente il tesoro di una città? Penso sia ciò che viene normalmente denominato “l’identità di un luogo”. Cosa sia veramente questa identità non è certo semplice da dire. Sono forse le sue architetture, le strade o i palazzi a crearla, o lo sono i suoi abitanti? Cosa ci fa sentire parte di un luogo che abitiamo o al contrario ad esso non ci fa appartenere? A pensarci bene sembra quasi impossibile pensare di sentirsi parte di edifici costruiti diversi secoli prima del nostro passaggio; ed è proprio questo che ho forse percepito nei volti e nelle andature delle tante persone che ho incrociato nel mio girovagare per Artena, un po’ come se i suoi abitanti fossero stati catapultati in quei luoghi senza che ne sapessero il motivo, ma al tempo stesso ne fossero in qualche modo uniti.
Quando ho accettato il lavoro non sapevo cosa avrei fatto e in quale direzione avrei portato il mio sguardo; ma sapevo che avrei lottato per non cadere in delle visioni stereotipate da cartolina, tipiche di quella neutralità impersonale che non fa sentire lo sguardo di chi quelle fotografie le ha scattate.
Ricordo quando da bambino durante i viaggi estivi sceglievo con cura proprio quelle cartoline da in-viare ai nonni o agli amici più cari sul retro delle quali sinteticamente usavo le giuste parole da abbinare all’immagine che le accompagnava. Le cartoline erano tutte belle ma era impossibile immaginare chi le avesse scattate, che età avesse, se fosse un uomo o una donna o quali emozioni avesse.
Quello che ho cercato nel mio girovagare per Artena è stato proprio l’opposto, immaginandomi nei panni di un moderno viaggiatore alla scoperta di un luogo altro, a tratti misterioso. Davanti alle pietre di un muro, sotto un arco, su un tetto o un balcone ho provato ad immaginare le tante vite vissute appoggiate e fuse a quei posti, domandandomi cosa questi luoghi ci racconterebbero se solo potessero parlare.
L’ultima volta che sono stato ad Artena per scattare non volevo proprio andare via, forse perché sape-vo che era l’ultima a disposizione, così al calar del sole ero ancora nel pieno del lavoro e sono rimasto. La temperatura si è abbassata e in giro non c’era più nessuno. Ma inaspettatamente il sole una volta sceso si è infilato tra i vicoli regalando a me e alla mia macchina fotografica una luce nuova che non avevo mai visto e che nessuno mi aveva detto di aspettare.

FILIPPO TROJANO