IL DEGRADO SIAMO NOI

Discariche a cielo aperto tra le felci, i mughetti, le viole e i ciclamini. un territorio che dovrebbe essere incontaminato è invece violentato.

Lo ammetto, sono un tipo strano. In questi due mesi di reclusione forzata, ove il sentimento più diffuso tra la gente era la paura, io provavo rabbia. Per dominare questa rabbia e trasformarla in energia positiva, camminavo. Ho macinato chilometri, incentivata dal bel tempo, e mi sono fermata solo quando i miei scarponcini da trekking si sono aperti e non ho potuto farli incollare perché il ciabattino è chiuso. Durante quelle lunghe camminate in solitaria ho scoperto che i luoghi suggestivi che troppo spesso ero andata a cercare lontano erano lì, sotto i miei occhi. Boschi incantati, prati a perdita d’occhio, angoli segreti da cui il borgo antico sembrava disabitato e diruto, prospettive che hanno suggerito alla mia fantasia spunti su possibili drammi antichi e probabili misteri che forse un giorno prenderanno forma.

Come sempre quando mi immergo nella natura, nella storia e nell’arte, ero felice. Fino a che non mi imbattevo in una discarica a cielo aperto sorta proprio in quello slargo da cui si gode una vista superba sulla valle, fino a che non mi accorgevo che le felci, i mughetti, le viole e i ciclamini del sottobosco che stavo ammirando erano circondati da una bava di detriti che si perdeva nella scarpata. Fino a che non notavo, nei pressi di un ruscello, latte di vernice e rifiuti di ogni genere. Ogni tanto incrociavo un altro cittadino, che come me aveva scelto di rifugiarsi tra le braccia della natura, come tra quelle di una madre, per placare ansia, paura o come me, rabbia e camminare da solo o con il cane. E mi chiedevo se anche lui fosse scandalizzato e ferito come me da quello sfregio perpetrato al patrimonio comune, e stesse riflettendo come stavo facendo io su cosa spinga un cittadino a non avere cura dell’ambiente che lo circonda. Si fa presto a parlare di “inciviltà”. Guardandomi attorno, vedo in stragrande maggioranza case perfettamente curate, giardini ben tenuti, figli seguiti con amore, auto pulite, un vestire più che decoroso.

Un popolo che tiene molto a tutto ciò che è suo, che ha comprato a prezzo di lavoro e sacrifici e di cui per questo motivo ha molta cura e che difenderebbe con le unghie e con i denti. Un popolo che però, a un forte senso del “privato”, contrappone un debolissimo senso del “pubblico”. La signora che passa il folletto due volte al giorno sui pavimenti di casa è la stessa che lancia la cartaccia della pizza al di là della recinzione della villa comunale; l’uomo con la macchina sul cui cruscotto non regna un granello di polvere è lo stesso che butta il mozzicone di sigaretta fuori dal finestrino; il ragazzo il cui cane non ha mai conosciuto zecca, è lo stesso che lascia le deiezioni dell’animale sul marciapiede; la ragazzina griffata da capo a piedi, che si stira perfino gli slip è quella che ha lasciato il chewing-gum appiccicato sulla panchina. E così via.

Forse ognuno di noi, sorridendo di sottecchi, può riconoscersi in uno di questi tipi umani, e fare una onesta autocritica. Abbiamo voglia a prendercela con chi non pulisce, con le amministrazioni comunali più o meno diligenti, più o meno deficitarie: il degrado, in primis, siamo noi.

Siamo noi che non ci sentiamo i legittimi proprietari di ciò che non abbiamo comprato ma che ci è stato donato. Un dono cui probabilmente finora non abbiamo attributo lo stesso valore, abituati come siamo a pensare che sia più chic andare a cercare lontano da casa la bellezza cui giustamente aspiriamo per le nostre vacanze ed il nostro relax: spiagge, boschi, montagne e parchi incontaminati.

Poi, ecco che succede l’inimmaginabile e allora comprendiamo quanto siamo fortunati ad abitare in un luogo che, non lontano da una grande città, ci ha consentito di godere della vicinanza di una natura ancora fruibile, con tutti i vantaggi possibili sulla salute e sul benessere psicofisico, di una bellezza invidiabile a conforto del senso estetico di ognuno, e di non perdere del tutto il bene supremo di ogni essere umano: la libertà.

Quanto avremmo avuto, in più, se ne avessimo avuto cura? Quanto, a livello esponenziale, avremo goduto se il nostro patrimonio artistico, storico e culturale non fosse stato abbandonato alle ortiche, alle pecore e al vandalismo?

Forse, come dice il proverbio, non tutti i mali vengono per nuocere. A volte vengono per far riflettere e per scampare a mali ancora peggiori. E allora amiamolo, questo territorio in cui siamo nati o abbiamo scelto di vivere, e curiamolo come fosse cosa nostra, perché lo merita.

Marina Di Domenico