LA PRIMAVERA DENTRO

Diario serio o quasi sul tempo del lockdown.

Era il 4 marzo ed era nell’aria. Il virus? No. O forse sì ma non ci credevamo. Da qualche settimana c’erano questi curiosi consigli: lavatevi spesso e bene le mani, non toccatevi occhi, naso e bocca, starnutite e tossite nel gomito. Sembrava un rinnovato appello all’igiene e alla buona educazione.

Le immagini di Wuhan, con le strade deserte che venivano disinfettate con le pompe da uomini coperti da tute che sembravano spaziali, erano così lontane. Figurati se succede da noi, noi italiani non siamo così efficienti, ma che dico noi italiani, noi artenesi. Perché anche quando c’è stato il primo contagiato in Italia, mi sono vagamente preoccupata, ma stava al nord. Però al nord avevano chiuso dei comuni, erano zone rosse, scuole chiuse, assalto ai supermercati, distanziamento sociale, mascherine. E così l’abbiamo sentito arrivare, il lockdown. Non sapevamo cosa ci aspettasse, non eravamo pronti, soprattutto abbiamo iniziato ad aver paura e, si sa, la paura può farti fare azioni eroiche o… sciocche.

La prima mascherina me l’ha regalata un commerciante di Artena che ancora ringrazio; la prima volta al supermercato ho fatto due ore di fila: c’era un signore che non voleva fare la fila perché sosteneva di essere l’unico con una mascherina “regolamentare”; anche se gli scaffali erano ben riforniti le persone facevano incetta di ogni cosa e questo mi creava ansia, forse loro sapevano qualcosa che a me sfuggiva; se incrociavo qualcuno nel reparto della pasta davamo vita ad un bizzarro balletto per distanziarci. E poi bisognava stare a casa. Resta a casa e andrà tutto bene. Capisco che lo dicessero i bambini, con i loro meravigliosi arcobaleni, ma la retorica dell’andrà tutto bene da parte degli adulti l’ho trovata intollerabile. Così come i discorsi da fila in panetteria sul complotto dei poteri forti. Oppure tutti quelli che sui social urlavano: c’è troppa gente in giro! postando foto di puntolini (perché ripresi da molto lontano) che dovevano essere pericolosi untori solitari. Io sono stata a casa, ma senza il conforto delle canzoni sui balconi, i miei vicini non sono canterini, però il 25 aprile ho cantato Bella Ciao tutto il giorno. Anzi, quello che mi inquietava di più era proprio il silenzio, che certe sere sembrava quasi un rumore sordo che avanzava, come se la paura prendesse corpo, come fosse la paura di tutti.

Quel tempo sospeso non si poteva riempire con niente, leggere era insensato e tutto, tutto era come inficiato, come avere una mascherina sugli occhi o nella mente, che filtrava la realtà. Bisognava aspettare. Ma cosa? Il picco, la curva, i numeri, quanti contagiati, quanti in terapia intensiva, quanti morti. E fare la propria parte. Andare a fare la spesa rispettando i giorni e le ore a seconda dell’iniziale del cognome del capofamiglia, pur rendendosi conto che quelli dalla A alla M sono quasi il doppio degli altri (ma l’ho notato solo io?) ed aspettare 70 persone pensando vabbè, ci sono ben altre file, e avere negli occhi quelle dei camion militari lì, al nord. Intanto è arrivata la primavera: fa caldo, c’è il sole e a Pasquetta non c’era da vent’anni, così pure il 25 aprile, finanche il 1° maggio. La mattina esci ed il cielo è così azzurro, questo maggio è splendido, te ne accorgi perché ti fermi a guardarlo considerando che non puoi goderne appieno, ma in realtà lo vedi proprio perché hai rallentato.

Finalmente è giunta la fase 2, per strada incontro un gruppo di ragazzini in bici, liberi, felici; arriva anche la notizia più bella di quest’anno: hanno liberato Silvia Romano e, vederla riabbracciare i suoi, mi fa sentire tutto il desiderio degli abbracci non dati in questi mesi. Nelle reazioni al suo ritorno capisco di avere la risposta alla domanda che, chissà perché, tutti si fanno fin dall’inizio di questa quarantena: ne usciremo migliori? Quelli che lo erano già prima, sì. Gli altri, forse, la prossima primavera.

Gioia De Angelis