DEMOLIRE = COSTRUIRE

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SECONDO ARTICOLO SULLA TORRE DELL’ACQUA DI ARTENA. QUESTA VISIONE E’ DI GIUSEPPE MELE, DOTTORE DI SCIENZE E TECNOLOGIE APPLICATE

Se abbatto un manufatto, costruisco un paesaggio

Suppongo che la discussione sui social su questo problema sia animata, e ognuno accampi tesi sulla opportunità o meno di demolire la Torre dell’acqua o destinarla a un nuovo inizio tramite una riconversione. Personalmente non seguo tali dibattiti per cui nell’esporre questi pochi concetti forse ripeterò cose già dette da altri.
L’equazione descritta nel titolo – tende ad identificare, in un rapporto di uguaglianza, due verbi che nell’opinione corrente sembrerebbero porsi come antagonisti e contrastanti. Poco si pensa al fatto che demolire un manufatto (a prescindere dalla sua valenza storica, architettonica, paesaggistica) equivale a “costruire un paesaggio”. Un paesaggio nuovo, privato però di un elemento mnemonico che permette di caratterizzarne i contenuti e valorizzarne gli aspetti.
Quando si parla di paesaggio (e modifica dello stesso) si intende un luogo dove si accreditano dei valori che possono essere brevemente riassunti come: socialità, identità, appartenenza, segno dell’abitare, in parole povere una attribuzione di senso a ciò che ci circonda.
Nell’opinione comune una nuova edificazione rientra nel vago concetto del “nuovo che avanza” collegato ad una generica e vaga prospettiva di modernità e di cambiamento, mentre la demolizione assume spesso la valenza di un intervento tendente a svecchiare qualcosa che ha fatto il suo tempo e che nell’ottica del profitto e della mera utilità non ha più ragion d’essere.
Lungi dal fare retorica spicciola su un edificio che oggettivamente non ha nessun valore artistico o architettonico e che forse è anche compromesso dal punto di vista della staticità, vista la sua vetustà e la carente manutenzione, e vista anche forse la sua intervenuta inutilità per differimento di funzioni ad altri comparti e/o impianti, quello che preme sottolineare è che nessun segno interviene senza lasciare segno.
Una nuova costruzione nasce estranea, senza affetti, atopica ed atipica, ovvero priva di tutti quegli elementi e di tutti quei segni che le daranno sostanza urbanistica, elementi di riconoscibilità che solo il tempo, e l’uomo che lo trascorre, le potrà conferire. Il tempo è una variabile essenziale. Diceva P. Ricouer che “il tempo diventa tempo umano solo nella misura in cui viene raccontato” ma il racconto di cui si parla è costituito, in questo caso, oltre dalle naturali articolazioni sintattiche, grammaticali, linguistiche, anche e soprattutto dalla “muta presenza”.
Negli edifici esistenti il tempo è radicato, la costruzione può avere o non avere funzioni specifiche, può essere utile o inutile, opportuna o meno, tutte queste possono essere considerate come variabili delle considerazioni soggettive, l’unico elemento che permane e che non può essere tolto, né ignorato, è il tempo, che invece è una costante oggettiva. Il tempo le ha conferito un valore, fuori dai volumi e dalla fattezze fisiche, fuori dalla stabilità o dalla sua utilità o, per dirla con Vitruvio, fuori dalla “utilitas” dalla “firmitas” e dalla “venustas”.
Questo non vuol dire che non si debba mai demolire, ogni operazione che tende ad assolutizzare i comportamenti non è in genere foriera di buoni auspici e di giudizi oggettivi.
Ci sono state demolizioni “storiche” molto controverse ma che avevano una visione urbana di progetto che andava ben oltre lo stato dei luoghi ante-operam. Basti pensare (si intende con le dovute proporzioni e i dovuti distinguo) alla demolizione operata a Parigi nella seconda metà del 19° secolo dal Prefetto Haussmann; alla demolizione dei quartieri bassi di Napoli per far fronte alle emergenze epidemiche e sanitarie; alla demolizione del quartiere Pio a Roma per la costruzione di via della Conciliazione, tutte molto contrastate ma tutte “visionarie” ed alla fine giustificate nella loro ragion d’essere. Senza una visione la demolizione è violenza urbana. L’uomo si riconosce nel frutto del suo lavoro nel prodotto del suo “fare”. Spero che la visione post-operam non sia fare spazio per la creazione di sei o sette posti auto!
La permanenza delle tracce del passato si manifesta in differenti modi e in differente misura, nella forma, negli elementi caratteristici del manufatto, nell’uso proprio, nella sua generica configurazione così come si è consolidata nel tempo.
Valutare la permanenza significa saper leggere se le diverse caratteristiche che via via l’edificio ha assunto nel passato, sono ancora oggi valide, e prevalenti, valide e prevalenti su progetti di modifica che tengono conto solo del presente in un mero e sterile discorso di utilità od economicità (che è tutta da verificare). Ma questo è un altro capitolo…

Giuseppe MELE