UN ARTIGIANO PER VOLTA. GILBERTO VITELLI E LA SUA FALEGNAMERIA

Primo appuntamento della rubrica dedicata all’artigianato. Abbiamo incontrato uno dei falegnami che operano ad Artena, cercando di rivelare il cuore di un Paese creativo e ingegnoso, che ancora pone al centro di ogni processo il fattore umano. “Adoro questo mestiere, lo sento mio e ne sono totalmente innamorato”. “È indispensabile amare la professione e costruire ogni cosa secondo l’amore che si prova per il mestiere. Il lavoro va realizzato ad opera d’arte, per il rispetto che si deve nutrire per il cliente e per sé”

Questo è il primo appuntamento della rubrica dedicata all’artigianato. Abbiamo incontrato Gilberto Vitelli. Con il suo aiuto vogliamo rivelare il cuore di un’Artena creativa ed ingegnosa, capace di porre al centro di ogni processo il fattore umano. Gilberto e sua moglie ci hanno accolti con il sorriso e la nostra chiacchierata ha velocemente ripercorso oltre cinquant’anni di attività lavorativa. Buongiorno e grazie della tua disponibilità. Grazie per aver aperto la tua bottega a me e ai lettori de l’Altra Artena. Per rendere questa intervista ancor più autentica, avremo l’onere di trasporre in parole le sensazioni che si provano entrando in questo spazio: gli odori, il tocco dei materiali, il rumore delle seghe e delle pialle. Se siamo poi davvero bravi, dovremmo essere capaci di produrre nell’immaginario di chi ci legge, ricordi e sapori dei tempi andati, perché l’artigianato è indissolubilmente storia e tradizione! – Gilberto, quando hai iniziato il lavoro da falegname? Che ricordi hai di quando sei entrato a bottega? “A 16 anni sono entrato nella bottega di Domenico Velli, il mio maestro. Nel 1966 uscivo dal collegio e mi sono rivolto a lui per imparare un mestiere. All’epoca svolgeva la sua attività in un locale davanti alla vecchia Caserma, sotto la sua abitazione. I ‘ricci’ in faccia della segatura mi dispiacevano come ad ogni ragazzo. Ho provato anche a fare un altro lavoro per poi tornare in falegnameria e non uscirne più. Fino al 1982 ho lavorato da dipendente soprattutto su Roma, alternando momenti di produzione tipicamente industriale ad altri più squisitamente artigianali. Poi ho intrapreso lavori per mio conto, mi sono organizzato con le attrezzature e con le macchine, ho allestito un mio laboratorio e sono diventato autonomo.” -L’artigianato ha le sue radici nella tradizione. Si concepisce e si approccia ad un lavoro con la cura e l’attenzione dei particolari. Questi elementi sono cambiati nel tempo?

“No. È ancora così. In questo mestiere è fondamentale: avere in mente il prodotto e saper utilizzare i giusti utensili. Sono cambiate le competenze di chi lavora in falegnameria perché oggi si tende alla specializzazione e alla produzione in serie. Comunque penso che ci siano ancora falegnami che conoscono gli attrezzi manuali come la “spunteruola”, ma forse con l’industrializzazione a molti potrebbero essere sconosciuti come vocaboli. Sicuramente non a quelli della mia generazione.” -Hai amato subito questo lavoro? “L’ho sempre amato, ma è nel momento in cui vai da solo nella gestione, quando costruisci ciò che hai immaginato e per cui hai preso la misura, che lo senti veramente tuo sentendoti totalmente innamorato.” -Quale spirito ha mosso la tua attività in tutti questi anni? “Bisogna immedesimarsi nel cliente cercando di fornirgli più comodità possibili, prevedendo le variabili che lo soddisfano maggiormente e che rispondono all’uso che ne vorrà fare. È indispensabile amare la professione e costruire secondo l’amore che si ha della professione. Se non si è innamorati non si può portare avanti un lavoro. Mi è capitato che nella costruzione di un armadio calcolata la costruzione in un modo, nel montaggio in falegnameria non era consono. Ho ricomprato tutto il materiale ed ho iniziato nuovamente il tutto.” -Mi racconti di una volta in cui ti sei particolarmente inorgoglito? “Un amico mi ha portato a casa di un cliente per riparargli una porta. Dopo la porta riparata, sotto richiesta, ho arredato casa: la cameretta con armadio, scrivania e libreria, più un imbotto di passaggio tra soggiorno e sala da pranzo con relativo copritermosifone e boiserie.  È stata una grande soddisfazione aver progettato e concluso questi arredi!” -Ti è capitato di insegnare a qualcuno? “Ai miei figli. Nessuno di loro lo fa di mestiere, ma hanno imparato e sanno realizzare piccoli lavori. Gli ho insegnato per dargli l’esperienza. Guido a 14 anni ha realizzato su una scala a chiocciola il montaggio dello zoccoletto con tutti i tagli a modo necessari, pur non avendo mai usato la sega per tagliare tutte le angolazioni. Mi ha inorgoglito. Dargli i rudimenti li ha aiutati ad essere caparbi ed abili nella risoluzione dei problemi.” -Quindi hai trasmesso loro la creatività! C’è ancora la voglia di imparare a bottega? “Non è mai capitato che qualcuno me lo venisse a chiedere. Penso che oggi a venti anni, dopo aver concluso le scuole, non si abbia più l’età per sopportare le condizioni da apprendista. Quando io ho iniziato lavoravo per 1000 lire a settimana e poteva capitare anche la domenica. Probabilmente la responsabilità è della mia generazione che ha coccolato troppo i figli e che li ha cresciuti con il mito del posto in banca.” -Alla luce di queste riflessioni secondo te, che fine faranno le piccole botteghe artigianali? “La fine è già arrivata. Gli artigiani sono stati messi vicini all’industria, ma per noi rispettare gli emolumenti che quella può garantire è impossibile.” -Tu hai un cognome artenese ed immagino che qui si fondano le origini della tua famiglia. Che rapporto hai avuto ed hai con questa città? “Durante l’infanzia non ho vissuto il paese perché ero in collegio: prima a Palestrina e poi ad Artena dai frati. All’epoca si andava in collegio per imparare. Bene o male conosco tutti pur non di persona e per nome, così come gli artenesi con me. Vivo comunque molto la famiglia. Per me il giuramento del matrimonio è stato totale e da quando sono arrivati i nipoti, oltre a sentirmi ringiovanito, è stato come tornare bambini.” -Hai un ricordo legato alla città? “Quando sono uscito dal collegio e sono andato ad abitare su al paese c’era un’atmosfera diversa. Una comunità più compatta, sorridente e con la porta aperta. Ora siamo sparpagliati, il paese è quasi morto. Anche la festa della Madonna era molto più religiosa. Il percorso prima era diverso e più breve. In molti attendevano sotto le proprie abitazioni il passaggio della Madonna e si partecipava con maggior trasporto al corteo religioso. Probabilmente questo cambiamento devozionale è legato al diverso attaccamento generazionale, seppur il culto verso la Madonna è sempre vivo in ogni Artenese.” -C’è qualcosa che vorresti per Artena? “Forse negli anni ’60 vuoi per soldi, vuoi per cultura, la città era più vivace di quanto non lo sia oggi. Ma la cosa che mi rammarica maggiormente è lo scempio dei rifiuti ingombranti abbandonati, delle plastiche gettate ai bordi del bosco. Vorrei che si intervenisse con una bonifica e si lavorasse per ricostruire quel senso civico che evidentemente è scemato e che rischia di lasciare una triste eredità alle generazioni future.”