IL POTERE DELLA PAROLA

È quando ti vedi cambiare il senso delle parole davanti agli occhi che ti accorgi di quanto esse siano davvero molto importanti. Fanno molta paura le parole, sono servite da tempo immemorabile a svegliare le coscienze. Oggi sono oggetto di un martellamento mediatico

Lo Stato chiama la guerra “missione di pace”, perché se avessero chiamato la guerra “guerra”, il Presidente della Repubblica non l’avrebbe approvata, il custode della nostra Costituzione avrebbe la violazione di uno dei nostri più belli articoli della Carta, l’art. 11, che non dice solo che l’Italia è contro la guerra, ma che la ripudia. È quando ti vedi cambiare il senso delle parole davanti agli occhi che ti accorgi di quanto esse siano importanti, soprattutto per chi ne vuole alterare il significato. Siamo un Paese in cui le redazioni dei telegiornali non usano mai il termine “pacifisti” per indicare i pacifisti che manifestavano contro i conflitti in Afghanistan e in Iraq. Molto meglio parlare di “disobbedienti”, “no-global”, “giovani dei centri sociali” o “dell’area antagonista”. Fanno molta paura le parole, sono servite da tempo immemorabile a svegliare le coscienze. Parlare di pacifismo porta alla mente immagini di amore per la vita, immagini di brutti ricordi lasciati dalla nostra Storia, in questo Paese che la guerra l’ha vissuta, e che proprio quando a fatica ha conosciuto la pace, ha trovato la consapevolezza della sua importanza, e le ha dedicato un articolo nella Carta Costituzionale che si è dato. Un articolo perché la pace non si perdesse più. Viviamo in una nazione che chiama “giustizialismo” la voglia di legalità. Una nazione soffocata dalle Mafie, con una classe dirigente corrotta e incline a delinquere ad ogni livello istituzionale, chiede una giustizia che sia uguale per tutti, come sancisce l’art. 3 della Costituzione. Chiedere che l’uomo potente e influente debba rispondere alla legge esattamente come il più debole e sconosciuto individuo che abbia commesso un errore, è un’usanza ormai nota come giustizialismo. Guai chiedere a un potente di rispondere delle sue azioni come i comuni mortali! Ti verrà risposto che una persona è innocente fino al terzo grado di giudizio, che fai parte del Partito delle Manette. La cosa strana, ma poi non tanto, è che queste accuse vengono rivolte solo quando a essere toccato è qualcuno che sta in alto, mentre quando c’è da fare processi in tv sull’ultimo caso di omicidio appetibile per il pubblico, appena salta fuori il primo sospettato, sullo schermo orde di criminologi e opinionisti dicono la loro per dimostrare come il soggetto in questione sia colpevole, scavando a ritroso sulla sua vita intima, fatta di stranezze e frequentazioni improbabili, in barba alla privacy. Anche la parola “privacy” per alcuni è privacy, per altri è diritto di cronaca. Sarebbe un lavoro infinito elencare tutti i termini entrati nel nostro dizionario con nuove accezioni, da “giustizia a orologeria” (che in un Paese sempre sotto elezioni fa sorridere), a “toghe rosse” per indicare i magistrati che conducono inchieste scomode, all’aggettivo “comunista” usato in accezione negativa tanto da far pensare che essere comunisti sia una qualche forma di reato e non anelare a un mondo più equo e più giusto. Viene utilizzata la tecnica del martellamento mediatico. Viene scelto un termine o una frasetta efficace che viene ripetuta per giorni, mesi, anni, fino a quando non si è infiltrata nel nostro cervello senza più renderci conto di cosa si tratta, dopo averla udita a ripetizione sui titoli dei tg, sulle prime pagine dei giornali, attraverso le onde radio o dalla signora nel negozio sotto casa in fila alla cassa davanti a noi. Il “processo breve” così efficace in uno Stato con la giustizia più lenta d’Europa. Trattasi infatti di processo morto, processo che mai verrà celebrato o che mai riuscirà a scorgere la sentenza finale. In un Paese con l’80% di cittadini che si informa via cavo, e che bene o male hanno tutti coscienza, direttamente o indirettamente, dello stato in cui si trova il nostro sistema giudiziario, questa deve apparire come una grande riforma, una di quelle prese di posizione da parte di una classe dirigente che ha a cuore le sorti dei suoi cittadini, e del loro diritto e necessità ad avere una giustizia veloce ed efficace. Davvero una bella trovata, nulla da eccepire. Se non fosse che in realtà questa legge, come ormai si è capito, non accelera i processi, eliminando prassi burocratiche inutili, leggi che impongono l’ascolto di tutti i testimoni richiesti dalla difesa e magari inutili, o anche, volendo esagerare, eliminando un grado di giudizio. No, lor signori decidono che se la sentenza non arriva entro un tot di tempo, tutto si prescrive, tutto finito, morto. Alla faccia delle vittime. E della giustizia efficace e veloce? E “l’immunità”.  Penso che questa volta troveranno un po’ più di problemi a spiegare a tutti i cittadini che l’immunità non è un termine molto adatto a designare ciò che da qualche secolo è definito con la parola “impunità”.