TEATRO? SPESSO E’ COME UNA MEDICINA

L’ATTORE GIORGIO COLANGELI SCRIVE PER ALTRA ARTENA

I DPCM che chiudono la cultura. Il senso latente, ma neanche tanto, che il provvedimento di chiusura suggerisce è che il palcoscenico è superfluo, appartiene a quell’ elenco di cose che quando si parla di sopravvivenza, di salute, di fame, di lavoro, di cose serie insomma, hanno priorità uguale a zero.

Questi ultimi provvedimenti mi sono sembrati confusi, e motivo di reazioni e proteste che in questi tempi di forti tensioni possono essere molto pericolose. Ma dico anche: rispettiamo le leggi. Le leggi sbagliate si correggono, non si infrangono, infrangere le leggi significa chiamarsi fuori dalla comunità civile che quelle leggi ha espresso, è come dare le dimissioni da cittadino

Ormai si parla sempre e solo della Covid19. Mi affaccio anch’io a questa tribuna planetaria, a questo talk show che non ha fine, nello spazio e nel tempo, per rispondere alla domanda che mi ha fatto Vittorio: che ne pensi della chiusura dei teatri? Io penso che è un provvedimento che ha poco a che vedere con l’emergenza sanitaria, perché la gente che va a teatro è pochissima, pochissima già prima della Covid, ancora meno alla riapertura dei teatri dopo il lockdown. La riduzione reale del rischio di contagio che si ottiene impedendo a poche migliaia di persone di andare a teatro è trascurabile. Il senso latente, ma neanche tanto, che il provvedimento suggerisce è che il teatro è superfluo, appartiene a quell’ elenco di cose che quando si parla di sopravvivenza, di salute, di fame, di lavoro, di cose serie insomma, hanno priorità uguale a zero. Ma c’era forse bisogno di ribadirlo? Non credo. È un’idea condivisa da molti, anzi quasi da tutti. E a questo punto ci starebbe il lamento dell’ addetto ai lavori: lo stato non spende abbastanza per la cultura, la ggente non capisce… È colpa “loro”. Ma non potrebbe essere, almeno un poco, anche, colpa nostra? Di noi che lo facciamo il teatro? Se lo ammettessimo, sarebbe già un passo avanti: potremmo agire noi, anziché aspettare, nella frustrazione e nello
sconforto, che “loro” lo facciano. Ma per insinuare almeno il dubbio che il teatro non sia così superfluo, pensiamo ai medici clown, a quei medici che hanno imparato a fare i clown e vanno a curare i bambini negli ospedali pediatrici con il naso finto e la parrucca verde. Una risata o solo un sorriso strappato a un bambino sofferente vale quanto una medicina. Vittorio non me lo ha chiesto, ma me lo chiedo da solo. Cosa ne penso della chiusura alle 18 di bar, ristoranti e locali pubblici in genere? Penso a “Ladri di biciclette”, il film di un altro Vittorio, il De Sica. Racconta di un poveraccio che gli rubano la bicicletta. Capirai! A me ne hanno rubate 18 dal 1975 ai giorni nostri. Sì, ma al poveraccio del film la bicicletta non serviva per andare sulla ciclabile la domenica, ma per raggiungere il posto di un lavoro lontano e precario in quella Roma e in quella Italia dell’immediato dopoguerra, che oggi nessuno più ricorda, ma che è stata dei nostri padri, quando non addirittura dei nostri fratelli maggiori, e comunque non dei nostri bisavoli. Accompagnato dal figlio, un bambino, l’uomo cerca disperatamente di ritrovare la bicicletta, passando da un ricettatore all’altro, seguendo indicazioni improbabili e incerte, qualche volta ingannevoli. Tutto inutile. Stanchi e sfiduciati, padre e figlio entrano in una modesta trattoria. Si siedono. Il padre ordina. Mangiano forse una frittatina, come sicuramente avrebbero potuto mangiare a casa loro, una volta tornati. Ma lì, in trattoria, è diverso. In mezzo a quegli sconosciuti, il poveraccio non è più un poveraccio, dimentica, per un poco, la sconfitta, l’assillo di una vita difficile. È un padre che sorride al figlio, perché è riuscito a dargli qualcosa di buono; e il bambino è contento del sorriso del padre e sorride anche lui in mezzo alla gente che mangia e parla e ride e tace e guarda e si fa guardare. Come una giostra. Miracoli delle trattorie… Allora che senso ha obbligare quei locali pubblici, nei quali la gente cerca, che lo sappia o meno, proprio quell’effimero sollievo; locali, peraltro sanificati e adeguati alle indicazioni della legge in materia di contenimento del contagio, che senso ha, mi chiedo, chiuderli proprio nell’orario in cui sono più utili, più necessari? Anche in questo caso si rinuncia e si è obbligati a rinunciare a qualcosa ritenuto superfluo. Ma non è, invece, che il superfluo ha a che vedere con la qualità della vita e quindi non è superfluo, ma diventa superfluo solo quando hai in mente la quantità nella vita, cioè quanto hai, quanto ancora potresti avere, quanto guadagni, quanto altri può guadagnare da te usandoti, quanto puoi guadagnare tu usando gli altri? Tutto quello che ha a che vedere con il lavoro produttivo deve andare avanti, si può anche rischiare. Se un teatro o un qualsiasi altro locale pubblico sanificato e adeguato alle leggi è rischioso al punto che lo chiudi, sono forse meno rischiosi i luoghi di lavoro in cui, con le stesse cautele, si continua a lavorare? Insomma, è chiaro che almeno alcuni di questi ultimi provvedimenti mi sono sembrati confusi, contraddittorii e incoerenti e motivo di reazioni e proteste che in questi tempi di forti tensioni possono essere molto pericolose. Ma dico anche: rispettiamo le leggi. Le leggi sbagliate si correggono, non si infrangono, infrangere le leggi significa chiamarsi fuori dalla comunità civile che quelle leggi ha espresso, è come dare le dimissioni da cittadino. È un atto di debolezza e di individualismo, una ingannevole soluzione che è peggiore del problema che vorrebbe risolvere e cioè la frustrazione patita da chi si sente quasi perseguitato, vessato dalla legge ritenuta iniqua. Mi viene in mente Socrate che, condannato ingiustamente, subisce la condanna, pur di rispettare le leggi della sua città. La democrazia è abitata dal “noi”, che è il pronome della condivisione, della consapevolezza, della responsabilità. Il “loro” è il pronome della divisione, della chiusura, non a caso è il più usato nelle polemiche sterili e strumentali di cui è piena la scena della politica. Eppure, nonostante l’attuale situazione, cioè il rischio elevato di contagiare e di essere contagiati, ci imponga un comportamento re
sponsabile, non solo per noi stessi, ma anche per gli altri, nonostante questa forte connessione, la tentazione è sempre di uscire dalla rete e farcela da soli. E dare la colpa a “loro”. E questa volta nel “loro” ci sono anche gli scienziati, anche loro ci hanno deluso, ma distinguerei due delusioni, diverse: una, in un certo senso, è colpa loro, degli scienziati; l’altra è colpa nostra. La prima nasce dal fatto, oggettivo, che, travolti dalla frenetica esposizione mediatica, gli scienziati si sono beccati tra di loro, smentiti, hanno litigato, hanno detto tutto e il contrario di tutto e perfino nel loro ambito, sulle loro riviste, a riflettori spenti, hanno
fatto dichiarazioni, prodotto ipotesi e soluzioni non del tutto fondate e verificate. Insomma, quasi peggio dei politici. Ma questa delusione non è grave. Serve a capire che anche gli scienziati sono esseri umani. L’altra delusione è colpa nostra. Gli scienziati ci hanno deluso perché non hanno trovato la soluzione in quattro e quattro otto. Ma pensare che gli scienziati siano produttori di certezze, quando non di veri e propri miracoli, è un’idea nostra, sbagliata, che ci viene suggerita, anzi imposta, da un grosso equivoco e dalla pubblicità. L’equivoco è confondere la scienza con la tecnologia. La tecnologia è l’insieme delle applicazioni pratiche che la ricerca ha reso possibili. Queste applicazioni funzionano e sodisfano i nostri bisogni con una tempestività che ci appare miracolosa, perché ci pensa la pubblicità a creare in noi proprio quei bisogni che la tecnologia è già pronta a sodisfare. Un gioco di squadra: la pubblicità alza e la tecnologia schiaccia, come nella palla a volo. La scienza è un’altra cosa. La scienza è la casa dei dubbi, degli errori, delle verifiche, delle ipotesi. La scienza cerca una spiegazione, la cerca perché non ce l’ha. Cerca di sapere proprio perché non sa. Ancora Socrate. Sapere qualcosa di certo su questo Corona Virus e magari trovare un vaccino salvifico non è una faccenda di tecnologia, ma ancora una sfida scientifica e quindi i tempi della soluzione sono quelli incerti della ricerca che sempre un poco brancola, si rifà a quello che già conosce cercando di adattarlo al nuovo; ogni tanto, costretta dalle novità, deve abbandonare il già noto e osare, pensare altro. Questo modo di procedere della scienza, poco noto, ci sembrerebbe sicuramente deludente, poco affidabile, anche un poco inquietante, abituati come siamo alle eclatanti performance di tecnologia e pubblicità, i due assi della palla a volo. Ma, a ben vedere, la nostra conoscenza, di esseri umani, ha sempre seguito questa strada, una strada lastricata di incertezze, di enigmi; un navigare rischioso, in cui i naufragi sono importanti quanto gli approdi

GIORGIO COLANGELI