LE RUBRICHE. UNA SERIE PER VOLTA, OGGI “VEDIAMO” SANPA

Uscita in sordina il 30 dicembre 2020 su Netflix, poi sostenuta da una massiccia campagna pubblicitaria sui quotidiani e sulla tv generalista, la docuserie SanPa – Luci e tenebre di San Patrignano ha conquistato da subito la critica e il pubblico non solo per il suo linguaggio forte e privo di fronzoli, ma anche per il materiale storico sapientemente assemblato, cadenzato da interviste inedite di uno spessore umano di rara potenza. SanPa racconta gli inizi e i trascorsi della più grande comunità di recupero d’Europa, nata a metà degli anni settanta grazie all’intuizione di uno dei più attivi membri della borghesia riminese: Vincenzo Muccioli, l’unico ad affrontare a viso aperto il problema dei tossicodipendenti in Italia e ad accoglierli gratuitamente nella sua struttura curandoli con erbe, tisane e massaggi e chiedendo in cambio duro lavoro, dedizione e fedeltà assoluta. Da subito non fa mistero di ricorrere anche alle maniere forti (“qualche sganascione” o “se c’è da trattenervi io vi trattengo” diceva) pur di portare i suoi ospiti sulla via della della disintossicazione che, almeno all’inizio, non prevedeva alcun tipo di assistenza medica o psichiatrica. Muccioli diventa così una specie di leggenda vivente, corroborata dalla presenza carismatica e autoritaria, tanto che i genitori di tutta Italia lo osannano perché nessun altro si sarebbe occupato dei loro figli, emblema di quella generazione perduta che sarebbe andata incontro a morte sicura in mezzo al disinteresse e alla riprovazione morale comune. Eppure insieme all’idillio promesso dal sogno, a San Patrignano iniziano i primi sospetti, le prime accuse, i processi: è vero in quella struttura sono stati salvati migliaia di tossicodipendenti, ma ad ogni costo, a costo di essere legati con delle catene, di sottrargli la libertà e di gonfiarli di botte. C’è poi chi di quelle botte è morto, chi si è tolto la vita, chi è fuggito ed è stato riacciuffato su nessuna base di legalità, chi è fuggito e poi tornato volontariamente, forse perché, come spiega Fabio Cantelli Anibaldi, quella struttura era “un posto organizzato ma non freddo, un grembo esigente, come l’eroina che è un grembo inflessibile, che non ammette assenze, diserzioni: se te ne allontani inizi a stare come un cane”. Questa inafferrabile ambiguità trova la sua incarnazione nell’operato di Muccioli ma SanPa non assolve e non condanna, presenta “solamente” i fatti, oggettivi e scomodi che negli anni l’opinione pubblica, pilotata ad uso e consumo della politica benestante ha tentato di gettare nel dimenticatoio collettivo, cercando di rispondere ad un’unica e sola domanda: cos’ha fatto Vincenzo Muccioli? SanPa non vuole dare risposte, semmai il contrario: innesca il senso critico dello spettatore generando forti dubbi. L’assenza di un’interpretazione univoca, scevra dalla supponenza di avere risposte a portata di mano, è permesso dalle tesi contrapposte degli intervistati: tutti provano a dare una riposta ma è difficile- per noi e per loro- stare da una parte e condannare totalmente l’altra. Molti degli ex ospiti infatti raccontano di volere ancora bene a Muccioli, perché li ha salvati dalla droga, perché gli devono la vita nonostante la violenza e i torti subiti. Fabio Cantelli è uno di questi e le sue parole sono la prova evidente di quanto possa essere doloroso salvarsi da quella realtà. Lui, essendo riuscito laddove tutti avevano fallito- debellare le tue pulsioni di morte- era anche l’unico in grado di svuotarti all’istante di ogni capacità di reazione, di toglierti la spina della corrente vitale, di disanimarti sino a infonderti la tremenda sensazione di non , totalmente da lui (Fabio Cantelli Anibaldi). Ed è in queste righe che forse si concentra tutta la spirale dell’esperienza di San Patrignano e nel messaggio conclusivo che Cantelli ripete alla fine del documentario: “grazie e nonostante”, ricordando agli ascoltatori che non esiste salvezza senza la conoscenza e la riappropriazione del sé. SanPa, come lo stesso Muccioli, stazionano in quella parte parte di verità che non ammette le posizioni nette, la cosiddetta “zona grigia”. Muccioli era dio e aguzzino (Cantelli), era il santone che curava con l’amore e il benefattore laico, il conservatore e il rivoluzionario, l’imprenditore e il comunista, allegoria del bene e del male che non solo si relativizzano, ma sfumano e si disperdono, confondendosi l’uno nell’altro. Egli amava raccontarsi come un padre di figli scapestrati, pastore di anime smarrite che gli ospedali sapevano curare solo con altra droga: il metadone. La narrazione paternalistica del pater familias che dà ceffoni al figlio ma che è sempre pronto ad accoglierlo nella sua casa, risente di una lunga tradizione che fa capo ai monarchi e che ritorna spesso nelle forme di governo autoritarie. Come un imperatore tirannico sembrava infatti autorizzarsi da sé, con un’incontrollabile fiducia nella bontà del suo metodo fondato sì sull’accoglienza, ma anche su una disciplina che non contemplava il dissenso, sull’accettazione cieca della sua autorità e della giustizia del suo operato. Così il senso di indulgenza e di condanna verso Muccioli si mescolano nel solito bonario calderone, dando vita alla più lecita e machiavellica delle contraddizioni: il fine giustifica i mezzi?

ALLEGRA PERUGINI