ENTRANDO NELLA CITTA’ IN COSTRUZIONE, SU AL PIANO DELLA CIVITA

Uno dei più importanti tra gli archeologi italiani viventi, ci ha concesso l’autorizzazione a riprodurre un suo testo scritto per l’Atlante tematico di topografia antica edito da “L’Erma” di Bretschneider

Ha inizio il mio viaggio dal paese di Artena. La salita è erta, il cavallo monta con fatica la strada che, in stretti tornanti, dalla via Latina raggiunge la cima calcarea del monte. La via è ben tenuta, larga 14 piedi (4,2 m) nella sede centrale e 31 piedi (9,2 m) con quella pedonale e i potenti muri che la terrazzano: le rocce sono spianate, la parte carraia è lastricata in pietre calcaree di non grande dimensione, per permettere la presa agli zoccoli degli animali. Giunto in cima appare di fronte la città, ancora più alta e dominante: tra le rocce carsiche affioranti e appuntite si vedono le mura già costruite, con uno sbarramento continuo della sella montana lungo 11 actus (390 m): la struttura corre su tre rettifili, come di un poligono, quasi tondeggiando, con una potente fronte che valuto a 18 piedi (5,5 m) di altezza. A sinistra, sul pianoro, una fontana accoglie gli uomini e le bestie affaticate dopo l’ardua salita; vi sono slarghi, per stazzi e una grande rimessa per la sosta. Vicino è un piccolo tempio su base in opera silicea, così come il suo terrazzamento, che la guida mi dice dedicato a Marte. Tornando alla visione della città, sulla fronte delle mura non appaiono porte, ma la strada e il suo traffico conducono alla estremità occidentale: la porta è in una rientranza subito dietro un punzone che si protende ad angolo acuto a sua protezione. Si dimostra un ottimo esempio di porta saeva, mancina, difesa dal cuneo per un intero actus (35 m), mentre sull’altro lato dell’accesso la montagna precipita: sarebbe estremamente difficile un assalto armato e impossibile un attacco alla porta con un ariete. Posso ben vedere ora le mura in facciata, costruite in lapis durus, siliceus (cioè in opera poligonale; le diremmo oggi della così detta II maniera). La porta è di potente effetto, larga 10 piedi (3 m) tra gli stipiti in massi quadrati, alta altrettanto e coperta da lastroni in aggetto. Mura e porte, con la loro imponenza, richiamano subito l’impronta di una colonia di nomen latinum e l’idea di un intervento diretto di Roma per la sua fondazione. Affacciandomi sull’interno della città, subito attrae la vista un colossale bastione che spicca lontano nel paesaggio urbano, coprendo quasi tutta la fronte alta del monte. La città appare un immenso cantiere: la via, che entra dalla porta, corre come cardine, rettilinea fino alla vetta, dove si pone a lato del colossale muraglione già ricordato: una strada che dividerà in due la città e lunga, vedremo, 400 passi (590 m). Il terreno sui suoi due lati è percorso da assi ortogonali che disegnano la forma urbana nel divenire: l’impianto di base appare delineato o in corso di realizzazione: si vedono in via di sistemazione i cippi dei termini, e i solchi per indicare la direzione e la posizione di altre strade, altri terrazzi, altre aree. Osservando la posizione e il dispiegarsi dell’impianto urbano sul monte, la scenografia appare particolarmente studiata14. Anche la posizione dell’insediamento risulta ottimale: un altopiano ben soleggiato, esposto all’Àfrico e al Favonio (da sud ovest e da ovest), protetto dal rilevarsi del monte e con la stessa buona esposizione nella parte superiore. Il vento dominante, l’Aquilone (proveniente da nord), si infrangerà su quel versante, lasciando tranquillo quello opposto.
Di particolare interesse il marcato ambiente carsico: rocce affioranti in forme curve, solcate, laminate, fratturate, imbuti, inghiottitoi, doline, cavità ipogee. Un terreno difficile, da contrastare, ma non necessariamente, offrendo angoli e ripari. Rivolgendomi alle mura, queste appaiono ancora in costruzione sul versante occidentale che, essendo precipite e per questo naturalmente difeso, poteva essere lasciato tra gli ultimi. Il monte si rileva in gran parte a faglie naturali parallele nella sovrapposizione, così da facilitare con la fondazione anche l’estrazione dei blocchi, che possono essere abbastanza regolari, ma che la friabilità del calcare rende scheggiati. Il recupero appare condotto da monte, tagliando e spianando le asperità naturali che si rilevano irregolarmente, creando anche lo spazio sgombro di manovra, per la difesa, in caso di futuri assedi. Ma più ancora si ricavavano massi dal basso, togliendo lo strato superficiale degradato e scoprendo il banco sottostante: questo, tirato a nudo, splende di bianco, facendo comprendere come abbia fornito il materiale da costruzione. Qui, moltissimi blocchi si allineano sul fronte di cava, pronti man mano per essere montati. I lunghi fossati aperti per la fondazione delle mura hanno tagliato il declivio della collina, cercando il terreno solido: ora dato dalla stessa roccia calcarea, ora da un terreno argilloso e rossastro molto duro che la sovrasta, o ancora da uno strato di tufo. Le mura presentano uno spessore in elevato di 8 piedi (circa 2,2 m), ispessendo le fondazioni sul retro. Sono alte sulla fronte 18 piedi (5,5 m), rilevate a doppia cortina, di massi maggiori e ben incastrati in facciata, meno curati sul retro. Dalle rispettive facce i massi si incuneano incastrandosi tra loro, con l’ambito intermedio colmato da scaglie. L’aspetto può apparire abbastanza rozzo per l’irregolarità dei vertici frontali, ma gli interstizi vengono accuratamente inzeppati di scaglie creando una cortina molto uniforme. La fondazione del muro è collocata circa 8 piedi (2- 2,5 m) sotto il piano urbano, mentre la fortificazione è alta 18 piedi (5,5 m): usa prima il terreno naturale come spalla, poi il dislivello sul retro è superato con una controscarpa terragna o di scaglie, che permette di salirvi dal piano urbano. Proseguendo sul percorso dell’asse, largo 30 piedi (8,9 m), questo appare già ben bordato e in parte selciato. Sui lati risultano delineate le strade ortogonali e le opere di terrazzamento, che accolgono baracche e ricoveri provvisori, che dovranno man mano essere sostituiti da solide costruzioni. Si notano, un po’ dovunque, miseri avanzi di strutture in pietra e argilla, legname bruciato; mucchi di pietrame, materiale di tufo, frantumi di tegole e ceramica d’uso che appartenevano all’abitato più antico, da Roma distrutto: giace sconvolto o ammucchiato per il riuso; adoperato per livellare i terreni. Dai resti si vede che deve essersi trattato di piccole case slegate tra loro, con orientamento diverso l’una dall’altra, ben lontane dall’ordine che si sta imprimendo all’urbanistica della nuova città. Rimangono diverse cisterne circolari scavate nel terreno e foderate anularmente di pietra, scoperte o che si stanno riempiendo di pietrame. Due loro orli sporgono sul lato dell’asse viario, la cui costruzione ha richiesto il loro interro; i resti di una casa, con altre due cisterne, appaiono seppelliti all’incrocio del cardine con il decumano. Siamo giunti, infatti, dove il cardine incrocia il decumano e scandisce una linea ortogonale, dalla quale il terreno si rileva più ripido, offrendo all’abitato una migliore esposizione. Il decumano è ben largo, 33 piedi (9,8 m). A destra, poco lontano, si vede una delle porte urbich. Da qui doveva avvenire l’ingresso principale alla città, per chi provenisse dalla valle del Trero (il Sacco) e dalla via Latina. Sull’incrocio del cardine con il decumano lo spazio si allarga sui due lati con ampi spiazzi terrazzati. Al limite inferiore del terrazzo, a sinistra, un grande roccione naturale, tra emergenze minori, è stato rispettato: forse un luogo ubi saeptum bidental, fulgure conditum. Il cardine, subito dopo l’incrocio, sempre ben lastricato e largo 30 piedi (8,7 m), sale rapidamente verso la vetta; mostra all’imbocco un gradino, posto per rendere evidente da qui l’uso pedonale; altri ve ne sono sul percorso. Il lato sinistro della rampa mostra nel primo tratto settori lievemente rilevati, che stringono la strada, destinati alla sosta e a futuri banchi di vendita. Infatti, qui i lati della rampa appaiono ben terrazzati in successione e a destra, su un ripiano che si affaccia tra il cardine e il decumano, è un tempietto in antis, ben costruito, con zoccolo di pietra, largo 42 piedi (12,4 m) e lungo 55 (16,5 m). Subito sopra il tempio si trova un altro ampio terrazzamento scoperto, con un pozzo al centro e di fronte un nuovo edificio preceduto da un portico, con nella cella un altro pozzo: questo è profondo oltre 70 piedi (20 m), sempre di forma circolare e con perimetro lapideo o intagliato nella roccia. È alimentato da una sorgiva perenne, una fons viva, nativa. L’acqua sorgiva di questo pozzo è la sola nella città: le altre numerose cisterne dell’abitato più antico, che abbiamo visto salendo, venivano rifornite dall’acqua caelestis, piovana. Infatti, per la naturale posizione e la costituzione calcarea, mancano altre sorgive sul monte e l’acqua in città deve essere portata da valle. Si contano solo alcune sorgenti, di poco getto, sulle pendici più in basso35, ma si distingue un’altra sorgente a mezza costa della montagna, fuori la porta occidentale della città. La si raggiunge a 120 pertiche (355 m) con una ripidissima discesa. Qui si apre un’orrida forra lunga 34 passi (50 m), larga 6-7 passi (9-10 m), stretta e in discesa tra pareti a picco alte fino a 85 piedi (25 m); la forra prosegue trasformandosi in una oblunga gigantesca spelunca alta vastoque immanis hiatu, che si addentra nelle viscere del monte senza fine: a 50 passi (75 m) dall’imbocco vi sgorga la ricca sorgiva, benedetta dagli uomini, dalle greggi e dalle mandrie bovine che nell’antro trovano anche ristoro e riparo. Riprendendo il percorso del cardine, si mostra sempre più imponente, sulla sinistra, la lunga e colossale muraglia in costruzione, dove riconosceremo il Foro della città. La struttura è veramente grandiosa, costruita come le fortificazioni in lapis siliceus. Le grandi pietre sono state fatte scivolare dall’alto; un masso è tanto grande che sembra una roccia di monte naturale, ma è stata ruotata e spianata in facciata. L’irregolarità dei blocchi sulla fronte è con gran cura tirata a liscio con le inzeppature, come osservato per le mura. Al di sopra della muraglia, basso e più arretrato si scorge un ulteriore muraglione. Montando l’ultima rampa del cardine, che affianca sulla sinistra il grande terrazzamento, attorno e a monte avanzano distintamente molti resti di case dell’abitato precedente, non legate tra di loro: mostrano le loro strutture incastrate fra le rocce, adattate a formare parete, e con loro le cisterne rotonde, in gran parte colmate. Entrando nella spianata il cantiere appare colossale, denunciando il lavoro di un gran numero di persone per l’innalzamento delle strutture e il riporto del terreno. Il muraglione che regge il terrapieno è lungo 600 piedi anticui (166,5 m) (noi diremmo piede osco italico), alto fino a 33 piedi (9 m) e profondo 300-330 piedi (80-90 m) e più. È raro l’uso di questo piede nella città in costruzione, che usa invece normalmente, come ho visto, quello ufficializzato da Roma. Osservo come è stato potentemente costruito il terrapieno, per imbrigliarlo e renderlo ben solido per gli edifici che lo sovrasteranno: un altro muro, quello che si intravvedeva dal basso, è parallelo al primo a 25 piedi di distanza (7 m) e un poco più alto; a questo si raccordano a pettine, nel sottosuolo, altri muri, che con ulteriori traverse fanno sì che il terrapieno sia ben serrato tra quelli e possa sostenere gli edifici che vi saranno costruiti. Sotto il terrazzo sono sepolti resti anche di case della città distrutta e il terreno di riporto che ha colmato la spianata è in gran parte costituito dagli avanzi di quella. Si possono immaginare gli edifici che sorgeranno su questa piazza: il tempio della Triade capitolina; la Curia e il Comizio, la basilica, l’erario, il carcere e il tempio di Mercurio. Mi arrampico ancora un poco per giungere proprio sulla vetta del monte: qui è stata cavata una grande cisterna rettangolare, dai bordi irregolari, di grossomodo 88 × 44 piedi (26 × 13 m) e profonda 12 (3,5 m), che da una parte ha fornito la pietra per i muraglioni del Foro, dall’altra con il lavoro è stata adattata a un uso così utile. Certo, un problema determinante appare la mancanza d’acqua nella città: obliterate le più antiche cisterne, non è certo questa sulla vetta, per quanto grande ma dipendente comunque dall’acqua piovana, che possa sopperire al bisogno di un abitato posto su un monte calcareo. Le nuove case avranno anche loro cisterne, rifornite di acqua piovana dagli impluvi dei tetti; come a Signia, a Norba. Affacciandomi poi dall’alto sulla pianura sottostante, vedo bene la divisione agraria realizzata, spartita per strigas su tre assi paralleli dei quali la via Latina costituisce il mediano; ed ortogonale al centro è un altro asse che punta in direzione di Praeneste, quae montibus praestat. Girando poi lo sguardo, questo spazia su di un orizzonte ancora più vasto, che corre da Anagni a Segni e dall’Algido a Velletri, fino al mare di Anzio. Penso ormai di tornare e mi volgo a quest’ultimo versante per aggirare il Foro e discendere il monte. Attraggono l’attenzione gli avanzi di una casa del precedente abitato, che mostra ancora resti dei muri costruiti a telaio e, all’interno, con uno dei soliti pozzi, una cucina. Mi immetto sul decumano che aggira questa parte del monte, in parte ancora in costruzione, fino a raggiungere il cardine e di qui ridiscendo verso la porta dalla quale sono entrato in città. Si capisce che questa diverrà certo una bella città. Ho visto un complesso urbano grandioso, esteso su 122 jugeri (quasi 40 ha), impostato geometricamente secondo un disegno razionale sull’accidentalità di un monte calcareo assai movimentato e fortemente scosceso sui bordi. La città sarà cinta da imponenti fortificazioni con mura in opera poligonale e appare terrazzata a più livelli da mura parimenti ciclopiche e da minori sistemazioni che articolano il complesso in una serie di piani digradanti dalla vetta alla linea più bassa della difesa. La pianificazione urbana ha imposto alla montagna un disegno razionale, con il quale le avversità naturali sono state superate anche a costo di grandi difficoltà. La perimetrazione fortificata, includendo a scopo di difesa a nord est la vetta del monte, scende ai versanti meridionali e occidentali, chiudendo i settori che sono i più adatti all’insediamento, non solo per essere i più ampi, ma perché presentano un’esposizione particolarmente favorevole, del tutto soleggiata e protetta dal rilievo di vetta dai venti settentrionali. Della città appare solo la forma così delineata; ma si intuisce quale sarà domani con costruiti gli edifici pubblici e il fitto delle case. Sarà una città conforme al nomen latinum. Con questi alterni pensieri uscivo dalla porta della città, quando vedo, seduta su di una roccia, una vecchia, con cappello di paglia intrecciata a larga tesa e con sommità a punta, la tholìa. Nella mano tiene il rabdos, la verga degli incantesimi: è una saga, una fattucchiera: ai piedi le sta un cane, un calderone mezzo pieno di una specie di minestrone, una brocca e un bicchiere, con il quale m’invita a bere. «Perché – mi dice – hai voluto vedere questa città? Essa non esiste più! è già vuota e i buoi pascolano tra muri incompiuti. Il Senato di Roma ferma qui la sua costruzione: in questa regione non temiamo più Equi e Volsci; andremo a fondare nuove colonie in Campaniam, tra Osci e Sanniti». Resto interdetto e, sorridendo ironico, chiedo: «Ma se resterà incompiuta, questa città resterà anche senza nome! Ma come si chiama o si sarebbe chiamato questo abitato: Artena, Bola, Fortinum, Ecetra, Vitelia»? La maga non mi ha risposto.

LORENZO QUILICI